giovedì 29 dicembre 2011
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Se è vero che la parola «crescita» sembra scomparsa (ci si augura temporaneamente) dal panorama dell’economia del nostro Paese, è altrettanto vero che un’analoga assenza, ben più persistente nel tempo, emerge anche dalle ultime previsioni Istat circa il futuro della popolazione in Italia. Il fatto che, come documentano le nuove stime spinte sino al 2065, gli attuali 60,9 milioni di residenti siano destinati a salire solo di 400mila unità nell’arco del prossimo mezzo secolo (mentre nei cinquant’anni precedenti l’aumento è stato di 10 milioni) farà forse piacere a qualche nostalgico e indomito reduce delle battaglie contro la «bomba demografica», ma non può certo lasciare indifferenti «le persone pensanti». Non lo può fare per un duplice ordine di motivi. Da un lato, per il modo con cui, attraverso i meccanismi del ricambio generazionale e della mobilità internazionale, si arriva a tale risultato. Dall’altro, se si mettono in conto i cambiamenti che le dinamiche in atto potranno determinare sul piano delle caratteristiche qualitative della popolazione stessa. La sostanziale tenuta del numero di abitanti è, infatti, il risultato della compensazione tra una dinamica naturale fortemente negativa – più morti che nati per circa 11-12 milioni di unità nell’arco del cinquantennio – e un apporto migratorio di pari entità. In altre parole: la persistente incapacità nel sostenere il livello delle nascite, il cui ammontare annuo è destinate a subire ulteriori progressivi ribassi nonostante il crescente contributo degli stranieri, verrà totalmente annullata dall’apporto migratorio; tanto che il peso relativo della componente estera giungerà a triplicarsi: dall’attuale 7,5% dei residenti al 24% previsto nel 2065.Ma se l’Italia multietnica va comunque vista come una trasformazione che – a patto che sia governata con strumenti utili a favorire i processi di integrazione – potrebbe dare un contributo allo sviluppo del sistema Paese, ben più problematico appare il cambiamento nella struttura per età della popolazione cui si andrà inevitabilmente incontro. Scoprire che gli ultra 65enni – oggi pari a circa il 20% dei residenti – sono destinati a diventare nei prossimi trent’anni un terzo della popolazione, se non rappresenta una grande novità è comunque un dato che, mai come di questi tempi, merita la massima considerazione. Perché quando si segnala che il rapporto tra numero di anziani e popolazione in età lavorativa salirà dal 31% a circa il doppio nell’arco di tre decenni, si sottintende che tutta la quota di welfare che fa capo agli anziani – con sanità e pensioni in primo piano – è inevitabilmente indirizzata a raddoppiarsi. Non ci si deve dunque sorprendere se gli aridi dati statistici suggeriscono misure e azioni non sempre gradite e rispettose degli equilibri preesistenti. L’auspicio è che dalla consapevolezza sulle tendenze demografiche e sulla problematicità che ne deriva possa nascere la spinta a risollevarsi e a rilanciare la vitalità del Paese. Ogni previsione, va ricordato, non è che l’ipotetica definizione di uno scenario. Il futuro demografico che emerge dalle tavole dell’Istat non va visto come un percorso obbligato, bensì come uno dei possibili. Spetta alla società, e soprattutto a chi la governa, lavorare per cambiarlo. D’altra parte, una terapia per rilanciare la vitalità demografica nel nostro Paese – e magari di riflesso anche quella economica – è stata più volte segnalata. Fornire alle famiglie italiane un contesto amichevole e un sostegno concreto potrebbe infatti rappresentare una svolta fondamentale proprio per riformulare gli scenari e contenerne i problemi. In fondo, l’obiettivo (e la speranza ultima) è che tra qualche anno l’Istat sia costretta a dire: «Ci eravamo sbagliati».
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