L'alba tardiva che deve venire
sabato 3 dicembre 2022

Se non ora quando? Mosca, Kiev, Washington e Pechino in realtà vogliono finalmente tutti la stessa cosa: uscire dal conflitto che sconvolge l’Ucraina e rende evidente il disordine del mondo. Farla finita, chiaramente perdendo il meno possibile. L’Unione Europea, che tra le parti in causa potrebbe ricoprire un ruolo fondamentale per vicinanza geografica e affinità culturali, continua invece a procedere in ordine sparso.

La Germania (con l’Italia e la Francia grande “padre fondatore” dell’Europa così come la viviamo ora) pensa a fare scorte di gas, costi quel che costi, in barba a ogni principio comunitario. L’attuale cancelliere Scholz, ben nascosto nell’armadio lo “scheletro” del predecessore Schröder (e dei suoi interessi non tanto segreti nella Russia di Putin), ha puntato su Pechino già tradizionale terra di approdo delle industrie tedesche. Mandando su tutte le furie Joe Biden e frustrando le mire yankee di creare un comune “fronte occidentale” nei confronti del non-ultimo imperatore Xi Jinpig, sempre meno lontano (e sempre più egemonico) protagonista asiatico della geopolitica. I Ventisette – affrancati, via Brexit, dal puntuto atlantismo interventista della Gran Bretagna – oscillano tra la fermezza sterile dei primi della fila a Bruxelles e la confusione che alberga in un Est europeo (ma non solo lì) segnato da bellicosi sentimenti antirussi e penose attrazioni filoputiniane. E non possono più contare neppure su un uomo come Mario Draghi, apprezzato ma presto pensionato capo del governo di Roma e già impavido difensore della moneta comune in tempi di scarse visioni e d’intenzioni politiche scariche. Così, non può che assurgere a interlocutore privilegiato della Casa Bianca un personaggio come il presidente francese Emmanuel Macron, navigante a vista nella crisi ucraina (come un po’ tutti) e inseguito in patria dai nuvoloni dei temporali giudiziari e di un’inconsueta precarietà politica. È lui l’interlocutore del vecchio Biden e l’avanguardia della vecchia Europa: per condizione, tradizione, esperienza e una bella dose di malcelata autostima. Ma è anche lo stesso Macron che sciorina un rapporto privilegiato con Putin e viene smentito per due volte consecutive dal Cremlino dopo aver annunciato un imminente telefonata allo zar. E che annuncia in pompa magna una “Conferenza di pace” del 13 dicembre a Parigi, che di pace ha forse l’aspirazione, sebbene appaia destinata a essere l’ennesima “Conferenza dei donatori” in cui Volodymyr Zelensky chiederà armi e soldi per la guerra d’Ucraina e probabilmente li otterrà. Biden fa quindi di necessità virtù e accoglie a Washington l’ami Emmanuel. Ma capisce forse anche che un’Europa a pezzi non serve a molto. Né a sé stessa, né al gioco globale degli States, né ad arginare e placare l’orso russo.

Guardate l’Ungheria di Viktor Orbán, intenta a una sorta di doppio gioco. E guardate la Commissione della tedesca Ursula von der Leyen che propone di punire “specialmente” Putin all’insegna di una nuova Norimberga, ma scavalcando l’unica istituzione giudiziaria globale esistente ovvero quella Corte penale internazionale dell’Aja che con difficoltà è stata costituita dalla comunità delle nazioni (e – guarda un po’ – senza Cina, Russia e Stati Uniti). Si sbarella. Ma è un fatto: anche a Occidente si comincia a sentire il peso di una situazione tragica e sempre simile a sé stessa, che si avvita come l’omonimo marchingegno di Archimede. Questo è l’argomento che può portare le parti ad avvicinarsi, purtroppo più dei morti e degli odi accumulati dalle due parti, più del gelo scatenato sui poveri ucraini, più dei missili e più dell’assenza di munizioni.

Vladimir Putin sa persino meglio del (lucidissimo) generale americano Mark Milley che qualcosa gli resterà (la Crimea) e che qualcosa che voleva mangiarsi (l’intero Donbass) dovrà lasciarlo sul banco della partita negoziale che non può non aprirsi. Un tavolo tardivo, costruito sulla pelle degli ucraini, della sempre meno controllabile e silenziabile protesta interna degli oppositori russi e di una ferita alla memoria del mondo che solo in parte si traduce in quello che chiamiamo sdegno internazionale. Zelensky, per la sua parte, dovrà trovare il modo di incartare la situazione di fatto, vedendola e vendendola come una vittoria. Che per lui avrà costi valori politici abbastanza prevedibili. Ma il presidente ucraino sa anche che la pace, per come si sono messe le cose, passerà sopra la sua testa e sopra quella dei suoi concittadini che stanno morendo di ferro e di piombo.

Per questo adesso che anche in Occidente si parla sempre più senza remore di “accordi necessari”, si invoca un ruolo politico e non solo quasi meccanicamente e ipocritamente co-belligerante dell’Europa. E adesso c’è il repentino ravvedimento di Joe Biden, che non vede l’ora di avere un alleato vero per archiviare la sconfitta di Putin e non rendere più evidente e profonda la sconfitta di tutti gli altri: a parte mercanti d’armi e cinici e superpotenti calcolatori, come solo il Papa ha il coraggio di ricordare al mondo.

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