La voce arriva flebile, alcune parole sono spezzate. D’istinto si controlla l’apparecchio per assicurarsi che non si tratti di un problema tecnico. Il tono, però, è inconfondibile. Pur sussurrato – oltretutto in uno spagnolo dal marcato accento argentino – il messaggio di giovedì di papa Francesco colpisce gli ascoltatori e le ascoltatrici con una potenza dirompente. Inonda piazza San Pietro dove, come ogni sera ormai, donne e uomini si sono radunati a pregare insieme per lui. Da lì rimbalza nel mondo intero. Non grazie ai media, social in primis, che lo rilanciano. Né ai giochi di speculazioni che l’accompagnano. Quella voce esile ha un’energia intrinseca che eccede e sfugge dalle maglie della Rete. In essa si sente il dolore, non esibito e non celato, bensì accolto e sperimentato nella sua pienezza. Ma soprattutto si avverte la forza vitale di chi il limite – proprio innanzitutto – lo abita e, al contempo, lo attraversa. Niente a che vedere con la veemenza invasiva degli acuti – reali e virtuali – con i quali in questo tempo gareggiano i leader politici per accaparrarsi la ribalta nazionale e internazionale. Fuochi fatui capaci, tragicamente, di accendere incendi nei frantumi di un mondo globalizzato e rotto.
Francesco si conferma l’anti-strongman, come l’ha definito lo scrittore statunitense Paul Elie: in un’era di capi muscolari e prevaricatori, il Pontefice ci ricorda che esiste un altro modo di intendere ed esercitare il potere. Il potere come servizio a tutti, a partire dai più fragili, compiuto da esseri umani fragili anch’essi. In quest’ottica, la vulnerabilità non è più pecca da nascondere per paura di essere colpiti da nemici veri o presunti. Essa diviene terreno comune in cui incontrarsi. L’audio alla piazza colma di fedeli è, dunque, il corrispettivo sonoro dell’immagine-icona della preghiera del pastore solo nella piazza svuotata dal Covid. Tutti peccatori perdonati che, nel riconoscersi tali, sono capaci di perdonarsi e sostenersi poiché “nessuno si salva da solo”. «Ringrazio di cuore per le vostre preghiere per la mia salute dalla piazza, vi accompagno da qui». In pochi secondi, la sintesi e il distillato di dodici anni di Pontificato e di 88 anni di cammino esistenziale di uomo e di cristiano. In ognuna di quelle parole semplici, sommesse, quasi inafferrabili, chi ascolta sente l’eco della Parola. Difficile non pensare al “sussurro di brezza leggera” sul monte Oreb, 300 chilometri a sud dall’attuale Gaza, in cui Elia, come racconta la Bibbia, riconosce infine il comando di Dio dopo averlo invano cercato nel «vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce», «nel terremoto» e «nel fuoco».
Nella voce indebolita dalla malattia di Francesco risuona forte la Voce. È quest’ultima, proprio come quel 27 marzo di cinque anni fa, ad aprire uno fessura nel buio del presente per farvi irrompere un raggio di futuro. Un barlume quantomai indispensabile nell’era dell’ira. È quest’ultima la cifra della scena pubblica quanto dell’ambito privato. Ira per la promessa tradita di una crescita illimitata del benessere individuale e collettivo. Ira per una globalizzazione che appiattisce la molteplicità delle culture umane invece delle diseguaglianze. Ira perché le istituzioni e le regole create per ridurre la violenza dei conflitti risultano impotenti di fronte alla Terza guerra mondiale a pezzi. Ira perché sulle ceneri delle utopie è sorta una distesa di terra bruciata. Ira perché, nel mondo rimpicciolito, la vicinanza non si traduce in prossimità bensì in nuove solitudini. Nella parola ira, però, è contenuta la radice indoeuropea “eis” che indica il muoversi in modo scomposto, senza coordinazione, sull’impeto dell’emozione. Nel suo vorticare frenetico, chi ne è preda distrugge tutto ciò che sta intorno. Diversa è l’indignazione con cui spesso si confonde. Questa – in base al suo significato etimologico dal latino – è moto a difesa della dignità, propria e altrui. Il sentimento proprio del buon cittadino della res publica. Offre un percorso ai sussulti dell’ira e li indirizza verso una meta: la tutela di ciò che sta davvero a cuore.
Mai come ora, forse, urge aprire cammini attraverso i quali l’ira diventi indignazione. La rabbia si trasformi in passione. Il delirio in sogno. Se solo camminando si fa il cammino, parafrasando Antonio Machado, si potrebbe proporre un primo passo, immediato e concreto: compiere ciascuno - oggi, domani, subito – un atto di fraternità qualunque. Non importa quanto piccolo, invisibile, nascosto. Anche solo per una manciata di secondi, sovvertirà un ordine imperante basato sull’elogio della forza bruta. Un gesto di Quaresima laico e a portata di tutti. Un intento di rispondere a quella voce fragilissima in cui risuona la forza – di tutt’altro segno – della Voce.

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