
La partita tra Drola e Giallo Dozza disputata nel carcere di Bologna nel 2017, la prima tra due squadre carcerarie - Fabrizio Ferrian
«Per una testa calda come me, l’incontro con il rugby è stato un grande aiuto per mettere un po’ di ordine nell’esistenza. Ho imparato che il rispetto delle regole è fondamentale per vivere insieme, e che lo spirito di squadra, il sentirsi parte di un gruppo ti educa a capire che nello sport come nella vita non puoi fare a meno dell’altro». Quando Armando è arrivato in Italia dall’Albania era un adolescente, dopo essere stato ospitato in una comunità per minori ha percorso strade sbagliate che gli sono costate una condanna pesante. Il rugby l’ha scoperto cinque anni fa osservando dalla finestra della cella gli allenamenti della Giallo Dozza, la squadra formata da persone detenute che unisce il nome del carcere di Bologna con il provvedimento disciplinare di temporanea sospensione: nel rugby l’atleta che riceve dall’arbitro il cartellino giallo deve stare fuori dal gioco per dieci minuti, un tempo nel quale può meditare sui propri errori e prepararsi a tornare in campo per riprendere la partita. È una metafora della detenzione e del valore rieducativo che dovrebbe avere la pena. Dopo avere superato le selezioni per entrare nella squadra, Armando ha cominciato un percorso sportivo e umano che l’ha portato a giocare per tre anni come mediano di mischia sul campo di rugby del carcere bolognese. Ora lo aspetta una nuova sfida: sabato 17 maggio sarà il direttore di gara della partita tra la Giallo Dozza e i Cinghiali del Setta, una squadra attiva da vent’anni nella periferia della città. Infatti l’anno scorso Armando ha preso il patentino di primo livello da arbitro: è il paradosso (solo apparente) di un uomo che ha infranto le regole della convivenza e ora si trova a farle rispettare su un campo sportivo.
«Come è accaduto a lui, per molti detenuti il rugby è stato un momento importante di ripartenza umana – ragiona Francesco Dell’Aera, team manager della squadra –. I nostri atleti vivono in una sezione “dedicata” del carcere, fanno tre allenamenti alla settimana sul campo e uno teorico gestito dal capo allenatore. Per undici anni abbiamo partecipato al campionato federale di serie C, l’unico a cui è possibile accedere, e le partite si giocano ovviamente tutte sul nostro campo. I giocatori delle altre compagini sono contenti di farlo: per loro è la scoperta di un mondo, per i nostri è motivo di orgoglio e di gratitudine. Si mettono alla prova: lo scopo non è fare gli All Black in carcere, ma vivere il rugby come strumento educativo». In questa prospettiva c’è un momento molto significativo che corona le partite: il terzo tempo, il tradizionale incontro tra i giocatori delle due squadre alla fine del match. «Dopo 80 minuti di agonismo, è un momento conviviale che testimonia l’autentico spirito del rugby e offre agli atleti l’opportunità di capire che gli avversari vanno onorati e rispettati. Dopo averli placcati in partita, ti siedi a tavola con loro».
L’idea di portare la palla ovale in carcere è venuta a un uomo che ha fatto del rugby la passione della vita: Walter Rista ha iniziato a giocare a 14 anni, ha militato in serie B nel Cus Torino e a 22 è stato selezionato nella Nazionale come un vero enfant prodige, poi un giorno – aveva 46 anni – partecipando a un torneo per seniores in Argentina con la rappresentanza italiana è accaduto l’incontro che ha cambiato la sua vita. «Il pullman su cui viaggiavamo si è fermato dopo avere urtato contro un altro, siamo scesi in strada per aiutare l’autista ma gli occupanti dell’altro mezzo rimanevano immobili: erano tutti carcerati, mi colpì il fatto che pur essendo molto giovani avevano un’espressione da vecchi, con il volto segnato dalla sofferenza. Quel giorno decisi che avrei fatto qualcosa per far entrare il rugby nei penitenziari italiani, lo sport a cui avevo dedicato tanti anni della mia vita».
Era un azzardo ma ci è riuscito, aprendo una strada che sta portando molto frutto. Grazie alla disponibilità di Pietro Buffa, all’epoca direttore del carcere Lorusso Cutugno di Torino, nel 2010 è nata la Drola (una parola che in dialetto piemontese indica qualcosa di strano, di bizzarro), prima compagine in Italia formata interamente da detenuti. Da allora in 200 hanno indossato la maglia della squadra, seguiti con passione da Rista e dagli allenatori che si sono avvicendati. Alcuni hanno pure fatto carriera, come il moldavo Serghei che ha disputato 150 partite con la Drola e dopo avere saldato i conti con la giustizia ha militato in serie A nel Colorno come terza linea. Oggi la palla ovale è entrata in 19 istituti penali e in 2 case-famiglia, grazie a un protocollo tra Federazione Italiana Rugby e Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che comprende anche corsi per diventare allenatori o arbitri. Rista spiega che «viene così riconosciuto il valore trattamentale di alcuni aspetti tipici del nostro sport, uno sport che è palestra di vita: educa al rispetto delle regole e dell’avversario, alla gestione della forza fisica e al sacrificio, crea spirito di squadra. In partita se vuoi andare avanti devi passare la palla a un compagno dietro di te. Non si vince con i grandi solisti, si vince grazie alla compattezza della squadra. E poi ci sono risultati importanti sotto il profilo civile: la recidiva tra quelli che partecipano alle nostre attività si abbassa vertiginosamente, alla società arriva il messaggio che queste persone non sono vuoti a perdere ma gente che vuole dimostrare la propria volontà di riscatto. Hanno perso per strada le regole del buon vivere, noi li aiutiamo a ritrovarle. Non dimentichiamo il guadagno personale degli atleti delle squadre che vengono in carcere a giocare con i nostri ragazzi: scoprono un mondo che non conoscevano o che era avvolto dai pregiudizi, incontrano persone che testimoniano la loro voglia di ripartire».
In questo momento la Drola si limita agli allenamenti perché la squadra ha subito una drastica riduzione dopo che nelle urine di alcuni atleti sono state trovate tracce di sostanze stupefacenti (ma come hanno fatto ad entrare in carcere?). Rista ammette la parziale sconfitta, però rilancia con convinzione: «Qualche mela marcia non mette in discussione il valore di un’iniziativa che ha aiutato tante persone a cambiare strada». Come sta accadendo a Davide e Mohammed, due detenuti-atleti della Drola. Il primo attualmente è l’unico italiano in una squadra «dove la nazionalità e il colore della pelle non contano, ciò che conta è la voglia di riscatto che ci anima. Qui, dopo anni passati con gente sbagliata, ho trovato chi scommette sulla mia voglia di cambiamento. Dare un ritmo alla giornata, partecipare agli allenamenti, sacrificarsi, combattere insieme ai compagni di squadra, sentire l’odore dell’erba e della terra dopo tanto tempo passato tra ferro e cemento: sono sensazioni e soddisfazioni che non puoi capire se non hai vissuto qua dentro».
Mohammed è arrivato in Italia dall’Egitto, si trovava in carcere a Cosenza quando è venuto a conoscenza dell’esperienza della Drola, si è candidato e ha ottenuto il trasferimento a Torino. «Qui la mia esistenza è ripartita, ho ripreso gli studi, ho incontrato gente come Walter che non mi giudica per il mio passato ma mi offre una seconda possibilità, e in questa squadra si diventa compagni di cammino. La vita è come una partita di rugby: da solo non ce la fai, hai bisogno dei compagni per arrivare a meta».
(10 - continua)