L'ideologia di morte dei Pac, la realtà
martedì 15 gennaio 2019

La notizia data dal ministro della Giustizia che Cesare Battisti sarebbe stato condotto a Rebibbia – poi corretta, annunciando che sarebbe stata preferita la destinazione di Oristano – mi aveva colpito molto perché da qualche tempo svolgo nel carcere romano il ministero di Cappellano (per l’esattezza sono un "art. 17").

Il terrorista dei Pac (Proletari armati per il comunismo) è colpevole di 4 uccisioni, tutte orribili, ma in particolare mi ha dato molto da pregare e riflettere il primo omicidio, perché aveva riguardato un agente della Polizia penitenziaria. Il cappellano di un carcere non svolge il suo ministero solo rivolto ai detenuti, ma anche rispetto a tutti coloro che operano in un istituto di detenzione, un po’ come il sacerdote di una scuola non pensa solo agli alunni, ma anche a famiglie e professori. L’omicidio del maresciallo Antonio Santoro fu commesso a Udine il 6 giugno 1978 a opera dei Pac che lo rivendicarono. Santoro era accusato dai terroristi di presunti maltrattamenti ai danni di detenuti, per "inchieste giornalistiche" di quotidiani come "Lotta Continua", che gli imputavano abuso d’ufficio e di potere.

Esecutore materiale dell’omicidio venne riconosciuto Cesare Battisti, poi condannato all’ergastolo. Battisti e Enrica Migliorati (anch’essa appartenente ai Pac) attesero la vittima davanti all’uscio di casa fingendosi fidanzati. Poi, al sopraggiungere di Santoro, Battisti gli sparò alle spalle tre colpi, di cui due mortali alla nuca. Nel volantino di rivendicazione, intitolato «Contro i lager di Stato», i Pac scrissero che l’istituzione carceraria andava distrutta perché «ha una funzione di annientamento del proletariato prigioniero» e di «strumento di repressione e tortura».

Santoro ricevette la medaglia d’oro al merito civile alla memoria. E il 6 giugno 2007 gli è stata intitolata la nuova caserma della Polizia penitenziaria di Udine. Espressioni come «lager di Stato», «repressione e tortura», «funzione di annientamento » mi arrivano come pugni allo stomaco perché io in carcere ho visto custodi – non 'guardie' – attenti, pazienti, stanchi a volte, ma che riescono a vincersi perché sanno di essere, per forza di cose, i principali operatori nel lavoro di 'educare attraverso la pena'.

Chi è in carcere non è solo uno che ha sbagliato: è anche una persona che sta pagando per quello sbaglio e che sta ritrovando la propria dignità con lo scontare la pena che gli toglie la libertà. I sacerdoti sono in carcere perché «i detenuti e gli internati hanno libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto» (art. 26 dell’ordinamento penitenziale): e quanto vale per la religione vale anche per tanti altri diritti.

Auguro a Cesare Battisti di non guardare più il mondo attraverso concezioni teoriche. In carcere non troverà torturatori di un lager, ma persone che vedono i detenuti non attraverso il filtro dell’ideologia, quella che ha armato anche la mano dei Proletari armati per il comunismo, ma per ciò che sono: esseri umani come tutti noi. E troverà persone che stanno pagando un debito alla vita, con una pena che in Italia al di là dei luoghi comuni è certa e dura. Persone che, quasi sempre, sono poverissime e più ultime di tutti.

Perché quando usciranno – se usciranno – non troveranno nessuno. Né mogli, né compagne, né figli, né parenti, né amici, né lavoro, né società capace di accogliere. E questo un agente lo sa meglio e prima di chiunque altro, perché passare la giornata assieme ai detenuti significa inevitabilmente vivere la loro vita e sapere che i carcerati sono i reietti della società. Un agente non tortura; un agente spera che la detenzione e le misure a essa collegate (quando ci sono...) servano a non vedere più tornare in carcere chi esce quando ha scontato la pena in condizioni anche al limite della tollerabilità.

E il più grande dolore è vedere delusa questa speranza e dover mormorare tra sé e sé dopo poco tempo 'io ti ho già visto' perché, negli anni in cui il carcere lavorava per custodire il detenuto, nessuno nella società ha lavorato per essere capace di accogliere quella persona una volta libera.

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