giovedì 16 settembre 2010
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È il momento di verificare e valutare. Dopo la dichiarazione firmata da 189 capi di Stato e di Governo al vertice del Millennio delle Nazioni Unite nel 2000, la Comunità internazionale ha preso un impegno solenne: sconfiggere la povertà entro il 2015. Era questo lo slogan scandito nel 2000, declinato in otto obiettivi e in molteplici azioni, precise e concrete. Impegno che dopo dieci anni va verificato puntualmente. È quanto accadrà tra il 20 e il 22 settembre al Palazzo di Vetro a New York. È quanto si aspetta la gente di tutto il mondo. Un momento, l’attuale, certamente difficile che può però trasformarsi in occasione e opportunità educativa: dall’umiliazione all’azione, dall’indifferenza alla differenza.Oggi, a cinque anni dal traguardo finale, a guardare il rapporto delle Nazioni Unite recentemente pubblicato sullo stato di raggiungimento degli obiettivi del millennio, si direbbe che negli ultimi dieci anni siano stati registrati risultati senza precedenti nella lotta alla povertà estrema, ma che vi siano anche ritardi inaccettabili nel raggiungimento di alcuni degli obiettivi intermedi.Dall’esperienza che viviamo accanto alle Chiese locali, constatiamo infatti che all’interno di molti Paesi, anche quelli più ricchi, le diseguaglianze continuano a crescere, generando aree sempre più ampie di miseri ed esclusi.Urge dunque una qualche "correzione di rotta" sulle scelte, gli stili di vita, sull’uso delle risorse economiche ed ambientali, ma anche del nostro tempo e del nostro stare in relazione ogni giorno con tanti volti e storie di povertà che sollecitano prossimità. Circa un miliardo di persone nel mondo soffrono ancora la fame. Dietro questi numeri ci sono uomini e donne che vivono in condizioni disumane e che non possono aspettare che le promesse non mantenute dai governanti si traducano pienamente in fatti tangibili. Sono coloro che le Caritas incontrano tutti i giorni in molti paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina, dell’Oceania, e anche dell’Europa, nei piccoli gesti, attraverso i progetti e gli interventi, nel tentativo di dare risposte concrete. Sono voci, volti e cuori che soffrono e chiedono giustizia e dignità.Né la miseria, né l’ignoranza sono infatti un prodotto della "natura" e tanto meno della "fatalità". Quelli che chiamiamo "paesi poveri" sono quasi sempre paesi "impoveriti, derubati". Sono terre magari esposte anche alla rabbia dei venti, dei vulcani e degli oceani, ma il cui suolo rigurgita letteralmente di ricchezze. E se queste ricchezze venissero lasciate nel paese che le detiene e le produce, in Africa e in America Latina in primis? Purtroppo queste ricchezze vengono invece coordinate, sfruttate e drenate da multinazionali o aziende che stanno fuori, alla larga dal paese. All’interno di esso non vi è quasi alcuna ricaduta, sotto forma di proventi socialmente gestibili, per garantire dignità e sicurezza. Quel che colpisce di più, in questi paesi, non è dunque la miseria, ma la vertiginosa ingiustizia della distribuzione della ricchezza. E nell’ingiustizia non c’è un bel niente di inevitabile. C’è solo il regno di Mammona, già condannato senz’appello duemila anni or sono.Nella speranza non ci si deve arrendere. Continueremo a chiederci perché esistono ancora degli "ultimi". E non ci fermeremo, finché non sia fatta giustizia, con l’intelligenza e il cuore dell’amore.
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