venerdì 12 agosto 2016
La strana giustizia sportiva del caso Schwazer. (Massimiliano Castellani)
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Le due Coree unite da un selfie
La verità è ferita ma Alex è vivo
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Hanno “ammazzato” Alex e Alex è vivo… oggi a Rio forse canterebbe così anche Francesco De Gregori, sostituendo il suo Pablo con il nome di Schwazer. È difficile non rendersi conto che la punizione della Iaaf, otto anni di squalifica al marciatore azzurro, non è stata esemplare ma eccessiva, soprattutto per come è stata trattata la positività dell’atleta. Una positività che non è certa neppure dopo l’ultima udienza al Tas a Rio. Un processo kafkiano, un atleta che deve pagare di tasca propria la trasferta dall’altra parte del mondo per vedersi giudicato in uno studio di avvocati, lontano dai luoghi olimpici per non disturbare gli altri atleti. Come se Schwazer fosse un alieno e di quel mondo non avesse mai fatto parte.

 

È stato l’oro di Pechino 2008, l’uomo copertina, l’angelo biondo dalla faccia pulita, il figlio che ogni mamma avrebbe voluto, il fidanzato innamoratissimo di Carolina Kostner con la quale prima di Pellegrini e Magnini formava la coppia più bella del mondo olimpico. Era l’orgoglio della Fidal, eppure ora la nostra Federazione di atletica leggera non ha alzato un dito per difenderlo. E anche il Coni ha agito da Ponzio Pilato: Schwazer è accusato di essere un recidivo, quindi che vada incontro alla sua punizione, noi non possiamo fare più niente per lui... Solo Sandro Donati, il suo allenatore, si è battuto e continuerà a battersi contro tutto e contro tutti per far venire a galla la verità. Già, ma la verità qual è? Perché qui a forza di stilare teorie, congetture e arzigogolare su possibili complottismi ci siamo un po’ persi. La verità va cercata prima di tutto sul piano umano.

 

Se un giovane uomo grida e piange sino a sgolarsi che è innocente e si sente distrutto per come è stato trattato, allora bisogna ascoltarlo fuori da un’aula di giustizia sportiva e vedere come si può rimediare alla ferita che lo ha distrutto. Le toghe kafkiane sostengono che l’ormai famoso controllo di capodanno lo incastri, nonostante la provetta trasportata ai laboratori di Colonia con su la scritta “Racines” sia “illegale” perché riconducibile al Paese dell’atleta azzurro, e quindi di per sé già parte di una manipolazione.

 

Di sfumature che inducono al sospetto della manomissione delle prove in questa brutta storia ce ne sarebbero cento e mille, e Donati le avrebbe tutte archiviate in un PowerPoint che però sta diventando come una strana lampada di Aladino: nessuna la sfrega e i desideri di saperne di più non escono fuori. E così un atleta di trent’anni è volato a casa sconfitto, senza più una ragione per continuare la sua marcia e per di più con la nomea dell’unico “assassino” dello sport italiano. Se avesse commesso un omicidio, forse, la pena sarebbe stata meno severa. Ora Schwazer va a rinchiudersi nuovamente nel suo vergognoso dolore, inaccessibile e pericolosissimo per le ripercussioni psicologiche che potrebbe avere.

 

E mentre qui i Giochi vanno avanti, sottovoce anche gli atleti dicono che hanno “ammazzato” Alex. Ma qualcosa di buono e di vero dovrà pur accadere. Per tanti di noi Alex è vivo.

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