La vera scissione
martedì 21 febbraio 2017

Il fatto del giorno, sebbene ancora avvolto dalla nebbia di qualche incertezza, sembra proprio la scissione dal Pd di Matteo Renzi di un’ala sinistra (quanto robusta ed elettoralmente efficace si vedrà) che dell’anti-renzismo ha fatto una ragione sociale. Di chi va e di chi resta, e delle aritmetiche e delle geometrie politiche conseguenti si occupano giustamente le cronache. Qui ci si occupa – e ci si preoccupa, per quel che vale – del perché e del come questa "rottura" nell’attuale partito di maggioranza relativa si compie nel tempo faticoso e contraddittorio dell’addio ai già diroccati miti dell’era del maggioritario e della vocazione maggioritaria dei partiti egemoni di campi di centrodestra e di centrosinistra impoveriti da delusioni e astensioni di massa e, infine, saccheggiati e messi in questione dall’esplosione del Movimento 5 Stelle.

Un tempo nuovo – o forse vecchio, lo scopriremo solo vivendo – che è incominciato la sera del 4 dicembre 2016, mentre si completava il conteggio dei No referendari che, a valanga, avevano bocciato la riforma costituzionale che avrebbe consacrato e concluso l’itinerario precipitosamente battezzato Seconda Repubblica. Ed eccoci qua, senza allegria, come previsto, già dentro una fase neo-proporzionale che spinge ad alzare o rialzare bandiere e a intonare inni diversamente "sovranisti" e che quasi certamente, con altrettanta approssimazione, finiremo per chiamare Terza Repubblica. Una stagione che, a quanto è dato di capire dalle ambizioni divergenti dell’insieme dei partiti e dei partitini in lizza e dagli umori di un elettorato largamente (e anche comprensibilmente) segnato da svogliatezza, distacco e polemica anti-sistema, avrà tutta l’aria di una riedizione maledettamente riveduta e scorretta della Prima Repubblica. Che nei suoi momenti migliori aveva almeno goduto della "benedizione" di grandi correnti ideali (cattolico democratiche, liberal-repubblicane, socialdemocratiche e comuniste) capaci di dare profondità e nobiltà alle attese della gente e alle possibilità di un’Italia da ricostruire, da ricollocare con dignità in Europa e nel concerto delle nazioni e da riconciliare con la libertà e con una giusta e diffusa prosperità.

Oggi, anche in questo nostro Paese, siamo invece in un tempo di "uscite", tutte assai vagheggiate e tutte senza sicurezza. Uscita dalla retorica vacua e dalla pratica dirigista della riforma della Costituzione. Uscita dall’euro e pure dall’Europa (perché, checché si racconti, l’una cosa significa anche l’altra). Uscita dalla globalizzazione, con barriere commerciali e muri d’ogni genere. Uscita dal Mediterraneo, mare attraversato dal sospetto e ridotto a cimitero o a puro confine. E uscita anche dal Pd, partito perno di governo (un po’ come la Dc, un quarto di secolo fa) e sempre più indocile coalizione di correnti, teatro della battaglia e infine della frattura tra irruenti rottamatori e renitenti alla rottamazione.

Ma con quale cuore si esce o si resta nel Pd? E, altrove, più a sinistra o all’opposto, a destra, con quale progetto ci si schiera o ci si rischiera, ci si raggruppa o ci si scopre incompatibili? Cioè con quale idea-guida per ridare libero e solidale slancio, e sostenerlo, a una società ingrigita e intristita, con quale Italia in testa, con quale risposta alle domande di un presente impoverito e di un futuro che minaccia di esserlo ancor di più. Chi ancora guarda e ascolta le manovre di questi giorni, infatti, vede e sente soprattutto quel che non ama della politica: la tattica e il risentimento, il calcolo e l’interesse elettorale, la presunzione e la contorsione.

Se il Pd si fosse lacerato dopo un dibattito appassionato e preciso sulle politiche per il lavoro e non solo sulle responsabilità da attribuire a questo o quello nei titoli di coda del film chiamato Jobs Act e che, tra luci e ombre, da tutti assieme era stato girato, gli italiani – e noi con loro – avrebbero capito. Se i dem si fossero divisi dopo un confronto duro e schietto su modelli distinti e distanti di politiche fiscali per la famiglia o a causa dell’indisponibilità di una frazione del partito a considerare questa la priorità che invece è, gli italiani – almeno la gran parte – non avrebbero pensato di assistere all’ennesimo regolamento di conti. E così se ci si fosse affrontati con schiettezza sul tentativo (in corso alla Camera) di “completare” in senso matrimoniale la legge sulle unioni civili attraverso ipotesi di scriteriata riforma dell’adozione che minacciano di capovolgere il saggio e umanissimo obiettivo– cardine dell’istituto: dare a un figlio una madre e un padre, non una o uno solo, non due padri o due madri.

Se poi il principale partito di governo avesse dato vita a un dibattito incandescente e infine divaricante sulle scelte di politica della Difesa, sarebbe stato un vero evento chiarificatore al cospetto del Paese. Se il nodo delle migrazioni in atto dall’Est e dal Sud del mondo avesse tenuto banco alla direzione del Pd nella sua essenziale verità, cioè come emergenza generata non solo e non tanto dal numero dei richiedenti asilo, ma principalmente dallo sgoverno di anni e anni (da destra e da sinistra) del processo in corso e dalla “clandestinizzazione” sia delle persone in fuga da guerra e fame sia del tema del molteplice impoverimento umano dell’Italia e dell’Europa, allora parecchi avrebbero prestato orecchio con attenzione e addirittura con speranza. La vera scissione da temere e per cui inquietarsi è quella della politica (così sempre meno ideale e sempre più minuscola) dalla realtà delle politiche per la gente. Per questo vale la pena di tenere il campo e per questo si raccoglie fiducia. Oppure, inesorabilmente, la si fa a brandelli.

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