martedì 3 novembre 2015
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Pomeriggio del 31 ottobre, nel centro di Roma, nelle vetrine, ghirlande di teschi e ossa di morto. Una moltitudine di ragazzi, anche abbastanza cresciuti, si prepara festosa a indossare maschere da zombie, a ballare fra finte lapidi nelle discoteche. Sul Frecciarossa che va verso Milano, poi, comitive di adolescenti eccitate per quella che è diventata ormai una gran festa. E in città, la sera, che carnevale di fantasmi, nei locali della movida. A casa accendi la tv, in tempo per incrociare le nozze fra un vivo e una sposa morta, che porge la mano scheletrica sull’altare, davanti a un celebrante-teschio. E con tutto il rispetto per "La sposa cadavere" di Tim Burton e Mike Johnson, premio Oscar 2005, cambi canale in fretta, malinconica. Questa gaia morte, ti pesa. Ma certo, scherziamo, direbbero i ventenni, e anche ultratrentenni, che a tarda notte rincaseranno nei loro sudari, il trucco da zombie sfatto sotto agli occhi. È vero, scherzate: su qualcosa che chiamate nominalmente "morte", ma che nella sua tremenda concretezza ignorate. È un videogioco collettivo Halloween, che tracima nelle strade. Giocano con la morte, leggermente, giocano con ciò che non sanno, e di cui non hanno più, si direbbe, nemmeno un devoto timore. O forse c’è in questa farsa chiassosa quasi un’ansia di sfida, la sfida di chi si sente giovane per sempre, e immortale? E fa le smorfie alla morte, e la vezzeggia, certo di esserne immune, e salvo. Ma, pure nell’innocenza dei più giovani, com’ è sinistro questo gioco; col suo immaginario poi di un aldilà macabro, di una morte che non albeggia in una vita nuova, ma affonda nel buio della tomba, per sempre.Mi viene da domandarmi, questa sera, che cosa direbbe, se ancora vivesse, mio padre, che non c’è più da 25 anni; che cosa penserebbe di questa festa che in Italia, ai suoi tempi, non c’era, e come guarderebbe ai branchi di ragazzi in giro per Milano, il volto nascosto da teschi di carta, che ridono forte, sguaiati. Sarebbe sbalordito, mio padre, e chiederebbe che cos’è successo, e cos’è, questa fiera. Sai, papà, "scherzano", gli direi dapprima; ma con un po’ d’imbarazzo, perché qualcosa non torna. Si può scherzare su tante cose, ma sulle lapidi, sul sangue, sulle orbite vuote dei cadaveri, almeno in un Paese latino come il nostro suona strano. In un Paese mediterraneo, dove fino a qualche anno fa la reazione istintiva, davanti a teschi e tombe, poteva essere per i più devoti un segno della croce, e per gli altri un robusto gesto di scaramanzia - a fugare l’angoscia.Mi viene in mente un verso di Mario Luzi dedicato ai ragazzi degli anni 90: «Che cosa non ricordano, che cosa non sanno?», si domandava il poeta, constatando come una strana cesura fra generazioni, una frattura, qualcosa di non trasmesso, di non tramandato. Non sanno, i figli di 70 anni di pace, la morte, la guerra, la paura. L’oblio è calato sui ricordi dei nonni, che da ragazzi la morte l’hanno vista in faccia, addosso - vorace. Di modo che i ritornati dal fronte, o i sopravvissuti ai bombardamenti, mai avrebbero avuto voglia di vestirsi da scheletri, di sfiorare sepolcri. Avendone avuta troppa, di morte, e per umana reazione desiderando vita: amore, figli, cibo, e strade e città in pace. Sì, sarebbe rimasto incredulo mio padre, l’altra sera. Poi, se ne sarebbe venuto fuori con un "che sciocchi!", paternamente però, e con un’ombra di tristezza addosso. Sciocco, flirtare con la morte quando si ha la vita nelle mani; sfidare il limite ultimo nemmeno drammaticamente, ma per gioco. Mi sono tornate, nella sera di Halloween, nel ricordo due righe di una lettera di mio padre, alpino con la Julia, dal fronte russo, alla ragazza che amava e avrebbe sposato. Sottesa, pudicamente, tutta la morte che laggiù vedeva, morte atrocemente vera di compagni nel fiore degli anni, mio padre scriveva solo: «Anna, questa guerra deve finire in fretta. Voglio te, una casa, dei bambini, e un gatto. Noi due, abbiamo tante cose da fare». E quante cose da fare hanno, anche i nostri figli. Ma noi, glielo abbiamo detto? C’è urgenza di trasmettere vita, voglia di vita, di bellezza, di essere madri e padri, ancora. Il grande compito, il testimone rimasto come sospeso nelle nostre mani - la gioia che, in un’Italia sazia e pacifica, forse non abbiamo saputo tramandare.
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