giovedì 5 settembre 2019
Alla vigilia delle presidenziali e verso le legislative, si confrontano gli islamisti moderati con il fronte laico. Nell'apparente disinteresse dell'Europa, che invece dovrebbe vigilare
Nelle strade di Tunisi un manifesto di Nabil Karoui, tra i favoriti alle presidenziali (Ansa)

Nelle strade di Tunisi un manifesto di Nabil Karoui, tra i favoriti alle presidenziali (Ansa)

COMMENTA E CONDIVIDI

Soffia il fortunale, che tutto spazza e stravolge, in Tunisia, giovane democrazia alle prese con un’impegnativa agenda elettorale. Il prossimo 6 ottobre si voterà per il rinnovo del Parlamento; tre settimane prima, il 15 settembre, per la scelta del nuovo presidente, anticipata di due mesi rispetto al calendario naturale a causa del decesso del raìs in carica, Béji Caïd Essebsi, il 25 luglio scorso all’età di 92 anni. Lo stato di emergenza è stato proclamato per tutelare il regolare svolgimento dell’appuntamento. Per la piccola Repubblica nordafricana il momento non è dei migliori: lo spettro del vuoto di potere, venuta meno la figura carismatica e rassicurante di Essebsi, si fa più minaccioso. Le elezioni avranno per scenografia un clima sociale disilluso e amareggiato, complice una ripresa economica ancora debole.

Giornalisti ed esperti si danno battaglia, sforzandosi di intuire che cosa succederà nelle urne: è atteso un forte astensionismo soprattutto fra i giovani, ma candidature anti-sistema potrebbero rendere meno scontate le consultazioni popolari. Il 31 agosto è stata resa nota la lista definitiva dei candidati presidenziali: sono 26 i nominativi approvati dall’Alta commissione elettorale. La campagna è appena iniziata, ma è destinata a fare la storia: per la prima volta in Tunisia e in tutto il mondo arabo, saranno organizzati dei confronti televisivi. Tre dibattiti, di due ore e mezza ciascuno, permetteranno a tutti i candidati di esprimersi sotto i riflettori delle tv pubbliche (2) e di quelle private (7), estratti a sorte 48 ore prima del confronto tv. Favorito – nonostante il recente arresto per sospetta frode fiscale – il magnate della comunicazione Nabil Karoui, patron della rete privata Nessma Tv, seppure debuttante della politica. O meglio dell’anti-politica. Secondo le intenzioni di voto raccolte dagli istituti tunisini, la sua sigla, la neonata 'Al cuore della Tunisia' (Qalb Tounès), avrebbe ottime chance di vittoria – davanti agli islamisti moderati di Ennahda (La rinascita) – pure nella corsa alle legislative. Poco importa che il programma politico del discusso Karoui sia ancora in fieri: «Sono popolare, non populista », è solito schermirsi lui.

Fra i papabili alla presidenza anche il costituzionalista Kaïs Saïed, già ribattezzato il Roberspierre tunisino poiché agguerrito nemico della 'casta', di cui farebbero parte a suo giudizio tutte le sigle protagoniste della stagione post-rivoluzionaria. Accreditata anche la pasionaria Abir Moussi del Partito Dusturiano Libero ('dustur' significa costituzione in arabo), ben più lanciata di Moncef Marzouki, fondatore del Congresso della Repubblica, già presidente ad interim nel dopo rivolta dei Gelsomini. Anche il presidente di Corrente democratica Mohamed Abbou, l’ex ministro della Difesa Abdelkarim Zbidi (sostenuto dai liberali), il numero due di Ennahda Abdelfattah Mourou e l’ex premier Mehdi Jomaa potrebbero ottenere buoni piazzamenti. Poi, c’è l’incognita Youssef Chahed: il premier, anche lui in corsa per la presidenza, ha ceduto i propri poteri al ministro della Funzione pubblica, Kamel Morjane. Niente dimissioni, solo uno smarcamento, come previsto dalla Costituzione fino al termine della campagna elettorale. In aggiunta, il primo ministro ha pure rinunciato alla doppia cittadinanza (francese) per rendere la propria candidatura inattaccabile. E ha chiesto a tutti i concorrenti di imitarlo. Un gesto dal profondo valore po-litico, che riavvicina l’élite alla gente.

Nel complesso, il fronte laico liberale ha più fanti schierati, mentre quello islamista punta soprattutto su Mourou, che cerca di accreditarsi come 'il presidente di tutti', moderato e conciliante. Al di fuori di Ennahda, da cui è uscito nel 2014, si segnala comunque la candidatura dell’ex primo ministro Hamadi Jebali, che ribadisce: «Non sono il candidato nascosto di Ennahda». In proposito, i 'musulmani democratici tunisini' – espressione che hanno mutuato dai cristiano democratici tedeschi o dai democristiani italiani – godono ancora di un buon riscontro nel Paese, emerso alle elezioni comunali di un anno fa, e della maggioranza in Parlamento. Non è chiaro se cercheranno di esasperare i toni della campagna elettorale, puntando sull’incapacità dei liberali di rilanciare l’economia nazionale, oppure proseguiranno sulla strada della concordia. Una polarizzazione del dibattito rischierebbe di riportare la Tunisia alle tensioni sociali del 2013. L’area modernista e liberale dell’arena politica tunisina viene da un biennio a dir poco tribolato, con l’implosione del partito Nidaa Tounès ('L’appello della Tunisia', germogliato nel 2012 intorno alla figura di Essebsi padre e affondato dalle brame di potere del figlio Hafedh). In netto vantaggio alle elezioni dell’autunno 2014, Nidaa ha perso la maggioranza in Parlamento tre anni dopo, quando ha iniziato a svuotarsi di deputati a causa dello scontro fra il primo ministro Chahed, membro del gruppo dirigente, e Hafedh Essebsi, catapultato ai vertici del partito dal clan paterno. Un passo falso che ha suscitato il risentimento dell’opinione pubblica per il ritorno di uno smaccato nepotismo. Per alcuni mesi, nel primo scorcio di 2019, i sedicenti liberali – modernisti – laici hanno sognato la rimonta con un nuovo progetto, corteggiato pure da alcuni esponenti dell’opposizione di sinistra: Tahya Tounès ('Viva la Tunisia'). Ed effettivamente, fino a maggio le intenzioni di voto davano loro ragione. Poi, il crollo del premier Chahed nel gradimento popolare, alla luce di un continuo sfibrante aumento del costo della vita.

A onor del vero, anche il fronte islamista non si avvicina al voto al meglio della forma, seppure più solido dei liberali di fronte all’arrembaggio delle forze anti-sistema. Dal novembre scorso, il direttivo di Ennahda è sotto indagine, con l’accusa di aver commissionato l’esecuzione materiale dell’omicidio degli oppositori di sinistra Chokri Belaid e Mohammed Brahmi a una cellula jihadista (uccisi rispettivamente nel febbraio e nel luglio del 2013). Secondo la Procura di Tunisi, entrambi gli omicidi sarebbero stati messi in atto da una cellula della polizia segreta del partito, addestrata e armata dalla Fratellanza musulmana egiziana. L’inchiesta ha indebolito la posizione di Ennahda nell’arena politica e, probabilmente, causato la rottura fra il defunto presidente Essebsi e il numero uno di Ennahda, Rached Ghannouchi, a fine 2018. Da tenere a mente, per futuri sviluppi, un altro filone di inchiesta, secondo cui un apparato segreto del partito islamista avrebbe reclutato migliaia di combattenti da inviare in Siria e Iraq, fra il 2011 e il 2014.

Per questo, alcuni commentatori parlano di ritorno del 'degagismo' in Tunisia (dal francese 'Dégagez!', 'Andatevene!', urlato dai manifestanti nel gennaio 2011), ovvero di un rigurgito di rivoluzione contro il blocco di potere. Il Governo di consenso nazionale liberaleislamista è riuscito sì nell’intento di salvare la Tunisia da una guerra civile, isolando le frange più radicali dell’islamismo e sottraendo potere alle Forze armate, ma la riabilitazione di figure compromesse con il regime di Zine el-Abidine Ben Ali ha tolto autorevolezza al 'nuovo' apparato, sempre in odore di restaurazione. Al contempo, per la popolazione tunisina il contesto socio-economico non è mai davvero migliorato, nonostante progressive misure di austerità; corruzione e clientelismo sono rimasti al loro posto; e l’islamismo armato ha alzato la testa, reso più aggressivo dal rientro in patria di centinaia di jihadisti dai fronti mediorientali.

Dello scontento generale potrebbero quindi avvantaggiarsi sigle populiste emergenti. Da tenere d’occhio, fra i vari foyer di attivismo politico, 'Aish Tounsi', movimento a metà strada fra l’ong e il partito, capace di organizzare due consultazioni popolari online, nel novembre 2018 e a marzo 2019, mobilitando oltre 400mila tunisini. Ne è scaturito un documento programmatico in 12 punti, firmato da più di un milione di persone e potenzialmente in grado di piazzarsi nei primi tre posti alle politiche di ottobre. Tutto dipenderà comunque dal voto presidenziale: l’aver invertito gli appuntamenti elettorali rende ancor più complicato immaginare e orchestrare alleanze governative in assenza di un timoniere. Ad oggi, solo questo è certo, si rischia un’estrema polverizzazione del voto legislativo, cui parteciperanno decine di formazioni. La Tunisia che uscirà dalle urne autunnali potrebbe rivelarsi ancora più ingovernabile di quella di oggi, che pure avrebbe bisogno, per fare ripartire il motore economico, di un esecutivo più audace. Sulla sponda opposta del mar Mediterraneo, ancora una volta del destino dell’unico vero esperimento democratico nordafricano non ci si cura: l’Europa preferisce far finta di non sentire il tic tac di una nuova bomba ad orologeria tunisina.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: