mercoledì 17 agosto 2022
Nel mondo si vive fino a 73 anni, ma tra paesi ricchi e paesi poveri resta un divario di 45 anni Oltre la metà dell’esistenza è però trascorsa in condizioni mediocri. Un piano per intervenire
Un’analisi del McKinsey Health Institute indica la necessità e la possibilità di investimenti diffusi per aumentare di 6 anni in media il tempo vissuto in buona salute Le misure: più prevenzione, trasparenza dei dati sanitari, innovazione, responsabilità personale, attenzione nei luoghi di lavoro

Un’analisi del McKinsey Health Institute indica la necessità e la possibilità di investimenti diffusi per aumentare di 6 anni in media il tempo vissuto in buona salute Le misure: più prevenzione, trasparenza dei dati sanitari, innovazione, responsabilità personale, attenzione nei luoghi di lavoro - .

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Nel 1960 un essere umano aveva un’aspettativa media di vita di 54 anni. Con una forbice enorme di differenze tra chi nasceva in contesti segnati da miseria, infezioni e alto tasso di mortalità infantile, e chi godeva di standard “occidentali”. Oggi la vita media di un abitante del nostro pianeta è di 73 anni, 10 in più se quell’abitante nasce in Italia. La forbice si è ridotta ma resta impressionante constatare che, tra la più bassa e alta aspettativa di vita, esiste tuttora un divario di 45 anni.

E se risulta innegabile il cammino compiuto per ridurre le morti pediatriche, così come la denutrizione o le ma-lattie infettive – basti pensare alla risposta record della sanità mondiale nel creare vaccini efficaci contro la pandemia da Sars-CoV-2 – fa riflettere invece la mancata diminuzione, da 50 anni a questa parte, della percentuale di vite trascorse in cattiva salute. Lo rivela un’analisi sviluppata dal McKinsey Health Institute (Mhi), organismo della multinazionale di consulenza strategica statunitense, secondo cui, in media, le persone trascorrono circa il 50% della vita in condizioni di salute 'mediocri' (cioè «soffrendo di una o più patologie acute o croniche, che hanno un impatto sulla qualità o la durata dell’esistenza», ma senza una rilevante compromissione delle abitudini quotidiane), e il 12% in 'cattive' condizioni. In quest’ultimo caso gli interessati accusano una o più problematiche acute o croniche che richiedono un’assistenza costante o almeno frequente. Sono situazioni che hanno un impatto significativo sulle attività quotidiane, sulla qualità e l’aspettativa di vita.

Ma proprio la risposta messa in campo contro il Covid-19, rileva il Mhi, dimostra che «quando le risorse e la motivazione si fondono, sono possibili scoperte scientifiche e cambiamenti comportamentali su larga scala in periodi di tempo molto brevi». Una delle trasformazioni epocali è alle porte perché il Mhi crede che nel prossimo decennio «l’umanità potrebbe guadagnare fino a 45 miliardi di anni in più di vita di qualità superiore», 6 anni in media a persona, con punte di gran lunga maggiori in alcuni Paesi e popolazioni. Non proprio un dato trascurabile in un periodo in cui l’Eurostat, a prescindere dalla qualità dei nostri giorni, calcola in calo la speranza di vita nel 2021 (secondo anno di pandemia), in quasi metà degli Stati dell’Unione Europea, stimando i risultati peggiori in Slovacchia e Bulgaria (-2,2 anni rispetto al 2020), seguite da Lettonia (-2,1) ed Estonia (-2). Mentre l’Italia registra una risalita di 0,6 anni, dopo la flessione che l’anno prima aveva visto scendere l’aspettativa di vita dagli 83,6 anni del 2019 agli 82,3 del 2020.

Ma torniamo al rapporto Mhi. L’obiettivo del “guadagno”, a breve, in media, di 6 anni di esistenza di migliore qualità, è ambizioso ma raggiungibile per McKinsey, le cui stime assicurano che il 45% del volume globale delle ma-lattie potrebbe essere affrontato applicando trattamenti già consolidati nella pratica clinica delle nazioni più avanzate. Insomma, tra le sei trasformazioni sostanziali suggerite da Mhi, c’è anche quella di applicare strategie e interventi collaudati in modo equo in tutti i Paesi, «riducendo così il carico globale delle malattie (cioè l’impatto negativo che esse hanno su una popo- lazione in termini di cattivo stato di salute, rischio di decesso, costo delle cure o altri indici, ndr) di circa il 40%». Un esempio concreto? «L’86% del carico di malattia per la diarrea e le infezioni intestinali potrebbe essere ridotto entro il 2040». Quella che McKinsey propone è una mobilitazione pubblica, privata e sociale che, in una concezione «moderna » di salute, abbracci «l’aspetto fisico, mentale, sociale e spirituale».

E le altre cinque trasformazioni? Per la società americana occorrono maggiori investimenti sulla «prevenzione e sulla promozione di uno stato di salute ottimale», che includono anche aree come educazione, nutrizione, ricerca, prodotti di consumo, servizi finanziari e tecnologia. La spesa sanitaria è infatti da considerare «un investimento, non un costo», e la prevenzione, nei Paesi Ocse, vale solo il 2,8% del budget sanitario. Terzo: migliorare «la misurazione della salute», perché oggi ci sono ancora «enormi lacune nei dati comparativi» e nella «trasparenza».

Quarto punto: bisogna innovare di più, più velocemente e ovunque: modelli di business, politiche governative, farmaci, standard clinici, applicazioni mobili, prodotti medici, fino ai processi e alle nuove applicazioni tecnologiche, perché «tecnologia, dati e analisi» fanno progredire la salute. Quinto punto: per Mhi, le istituzioni al di fuori del tradizionale settore sanitario dovrebbero perseguire «opportunità di business legate alla salute, anche abilitando e responsabilizzando meglio i propri dipendenti, definendo e onorando gli impegni ambientali, sociali e di governance relativi alla salute». D’altra parte i datori di lavoro influiscono sulla salute dei dipendenti e la salute dei dipendenti influisce sulle loro prestazioni. Anche dal punto di vista economico si tratta di un tema di enorme rilevanza, visto che la cattiva salute dei dipendenti «costa circa 3,5 trilioni di dollari all’anno». Nel report McKinsey viene pure calcolato che le aziende sanitarie rappresentano il 10-15% dello S&P 500 (il più importante indice azionario nordamericano), e un altro 40-45% è costituito da imprese che offrono prodotti o servizi legati alla salute.

Ultimo punto, ma non in ordine gerarchico: è necessario responsabilizzare gli individui nella gestione della propria salute. I comportamenti individuali «sono i più grandi motori della salute» già in molti Paesi. Stiamo assistendo, spiega il report, a un’esplosione di soluzioni digitali in questo ambito. Un esempio significativo arriva dalla Cina, dove 200 milioni di consumatori hanno utilizzato la piattaforma mobile Good Doctor di Ping An per ricevere consulti, e gestire appuntamenti. Governi, fornitori e innovatori, conclude Mhi, hanno l’opportunità di mettere in sinergia dati e tecnologie per aiutare le persone a migliorare il controllo della salute. Da subito. Perché prevenire resta la migliore cura.

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