mercoledì 2 aprile 2014
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Caro direttore,seguendo in modo distaccato le polemiche di questi giorni sulle riforme costituzionali, sono andato a riprendere, nel mio ultimo libro di memorie varennesi, il testo di due lettere scritte dal primo ministro, Massimo d’Azeglio alla sua seconda moglie, Luisa di Varenna. Il suddetto capo del governo si era sposato in prime nozze con la figlia di Alessandro Manzoni, Giulia, ed in seconde nozze con Luisa Maumary, anch’essa vedova di Enrico Blondel, fratello di Enrichetta. Da quella corrispondenza ho estratto due testi particolarmente significativi, di 170 anni fa che faranno sorridere alcuni e arrabbiare altri.
 
8. Firenze, 20 marzo 1846.Massimo d’Azeglio fa un giro in Romagna per convincere i rivoltosi a non fare delle rivoluzioni inutili e inconcludenti, ma a unirsi a Carlo Alberto e all’esercito piemontese: «Ti scrivo, dopo mezzanotte; figurati, se bisogna che abbia da fare! Ma non voglio lasciar di tenerti al corrente. L’affare di quei poveri disgraziati è finito se Dio vuole, e sono “foeura di pee”, che Dio sia lodato! Chè ho creduto impazzire: che teste, che teste! M’han fatto proprio scappar la pazienza, e ho finito a dire: Compatisco il Papa d’aver da combattere con loro! Ora, è finalmente scoppiata la mina anche per me: e ier sera ebbi avviso, per lettera cortesemente concepita, che alla scadenza della mia carta di sicurezza (26 corrente) avessi a “desmorbagh la cà”. ..Ora vado a letto…Ti dico, in un orecchio, che rigenerar l’Italia è una bella cosa, ma costa gran seccature; e particolarmente quando s’ha da contrastar una settimana con diciotto  teste di romàgnuoli…».9. Genova, 19 aprile 1846D’Azeglio si porta a Genova, presso la marchesa Doria avendo saputo che è una donna forte e decisa. «… mi son fatto presentare a molte persone, e tra l’altre n’è capitata una, che fa proprio al mio caso ed è  la marchesa Teresa Doria. In poche parole, mi parve di capire che poteva aiutarmi assai, ed ho procurato legar conoscenza più stretta: pel nome, per esser nelle scuole ha molta influenza sul popolo; ha carattere di ferro; attività, e ottimo pensare, cioè vuole il bene possibile e lo vuole a viso aperto, e non s’occupa di sogni. Anche a lei, alla prima, pareva quasi impossibile la cosa, ma alla seconda e alla terza s’è persuasa che non lo  è, e si lavora per prepararla. Ha molte relazioni influenti, ch’entrano a poco a poco in quest’idea; le ho consigliato di far, come dici, lavorare i preti, ed ora insomma la cosa si sparge, è accolta bene, prende piede; e quel che non s’aveva a potere, ora dicon che si potrà benissimo. Oltre la marchesa, ho parlato a molt’altra gente, e procuro però di combinare che faccian capo a lei, che è molto adattata come un generale in campo: e sempre più mi persuado che la volontà quando è di quella che dico io, è una potenza non disprezzabile. Prèdica questa massima da parte mia e sarà buona predica. Dieci, in Italia, che dicesser, “Voglio”, come l’hanno detto Maometto, san Francesco Napoleone, sant’Ignazio; e poi si vedrebbe. Purtroppo invece il “Non è possibile”, vera divisa della pigrizia è la risposta che si dà più spesso in Italia a tutte questioni. Su, perdio, dormiglioni! ché, a quel che avete dormito, dovreste aver voglia di muovervi! Questa figura di retorica non è però adattata né a te, né nostri amici di costì: lasciamola, dunque, tra i fiori di eloquenza inutili, che sono molti…»
 
 
Cordiali saluti e complimenti, direttore, per i suoi scritti sempre ispirati da un raro equilibrio nel riferire i fatti dei nostri giorni.
don Lauro Consonni, Lecco
 
Lei mi offre, caro don Lauro, una di quelle buone occasioni in cui posso lasciare – e lo faccio volentieri – la maggior parte di questo spazio di dialogo a chi mi scrive. Dai due testi di Massimo d’Azeglio – uomo di politica e d’arte – che ha “regalato” a me e tutti gli amici lettori emergono, anche se non del tutto sconsolatamente, soprattutto storici vizi di noi italiani (mentre le virtù, pur evocate, restano prevalentemente sullo sfondo). Riprendo un paio di espressioni incastonate nell’elegante e a tratti scapigliato lessico ottocentesco di D’Azeglio e che mi paiono preziose: la «vera divisa della pigrizia» del «non è possibile» (disprezzata con opportuna e sempre attuale veemenza) e i «fiori di eloquenza inutili» (dipinti con lucido distacco). Le trovo assai utili per tornare ad augurarmi che nella stagione politica di transizione e di sperato cambiamento che stiamo attraversando non ci tocchi di commentare di nuovo il sopravvento di una paralizzante «pigrizia» riformatrice e delle troppe retoriche inutilità che regolarmente accompagnano. «Rigenerare l’Italia è una bella cosa, ma costa gran seccature», diceva – come lei ci rammenta – quel governante liberale che non fece sconti alla Chiesa e neanche a quanti si dicevano liberali al suo pari. Ha proprio ragione, caro don Lauro, il «sorriso» viene spontaneo. Proviamo a immaginare, stavolta, 170 anni dopo, di non specchiarci da cittadini in meno di «dieci» che a palazzo sanno dire sensatamente «Voglio» e, così, infine di poter fare a meno dell’«arrabbiatura». Ricambio di cuore il suo cordiale saluto.
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