sabato 12 giugno 2010
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C’è un tempo per rimanere incantati della signorile dispensazione della grazia, che affida i suoi tesori ai vasi di coccio (materia modesta: dura e fragile anche quando non dovrebbe). C’è un tempo per rimanere avviliti per lo smarrimento del dono affidato, che ferisce al cuore più della spada, ed espone la fede all’incredulità. C’è anche un tempo – ed è ora – nel quale i due momenti sono come sovrapposti: e vanno vissuti insieme. "Insieme". Ieri, nella visibile coralità dei quindicimila "segnati" e "consegnati", che si sono radunati intorno all’altare della celebrazione presieduta dal Papa, questo avverbio – "insieme" – ha sviluppato tutta la forza di un suo duplice significato. "Insieme", vuol dire certamente la sincera disponibilità a portare in sé stessi, senza sottrarsi, l’incondizionata ammirazione della grazia ricevuta e anche la dolorosa ferita del peccato. Il sacerdote non vuole coprire il peccato con la retorica della grazia. Non vuole nemmeno dissimulare con imbarazzo, quasi fosse cosa di cui egli stesso dispone a suo piacimento, la bellezza del dono che porta. Il dono è di Dio. Ed è in favore dei molti che cercano segni di Dio: e uomini in carne e ossa realmente segnati da Dio. Quando il Papa ci ricorda – e ricorda a tutti – che il sacerdozio è una consacrazione, non un mansionario, di questo parla. Quando ricorda che si tratta della vita di uno di noi, che azzarda la consegna di se stesso, e non di un ufficio che eroga prestazioni per il bisogno sociale di un po’ di religione, di questo parla. Quando ricorda che tra i segni che incidono la grazia destinata fin nella carne, come una ferita nel cuore che lietamente guarisce mille affetti feriti, il celibato sacerdotale offre un’insostituibile eloquenza alla pura grazia del sacramento, di questo parla. Non si tratta di fare vantaggiosa economia delle responsabilità, si tratta di allargare la disposizione dell’ospitalità per conto di Dio, in favore dei molti: a cominciare da quelli più inermi e più abbandonati."Insieme", ieri, diceva però anche altro. L’icona bella dei quindicimila intorno all’altare diceva di una "collegialità" indispensabile del sacerdozio ordinato e consegnato, che porta "insieme" la responsabilità e il dono. La comunione sacerdotale vive per prima – ed esemplarmente per tutti – la lieta disposizione a «portare gli uni i pesi degli altri», di cui parla l’apostolo Paolo. Se il ministero non è ufficio e mansionario, non è neppure luogo di carriera e competizione. Il vero miracolo, perciò, è che sia così vasta, tra i flutti della nostra società liquida che corrodono i buoni legami d’amore, la fermezza di questa lieta consegna. Nell’insieme dei volti conosciuti e sconosciuti delle migliaia, ieri, l’abbiamo vista. E l’abbiamo ammirata commossi, senza presunzione e senza arroganza, come un puro dono di Dio. Ne custodiremo l’icona, sostenendoci e ammonendoci a vicenda, senza lagnare e senza dubitare di Dio: il quale ci assegna, umani come siamo, il compito di renderlo prossimo agli umani. Lo faremo nella franca coscienza di essere esposti per primi, e più di ogni altro, all’insidia del "nemico" che intorbida le acque dell’amore e del bisogno d’amore. Le genti d’Occidente, proprio di questo stanno affogando. Discepoli goffi e improbabili come siamo, cammineremo sulle acque, se Dio ce lo chiede.
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