La Rai e la dignità delle donne: il coraggio della via diritta
martedì 21 gennaio 2020

Ci sono momenti in cui pensi l’abbiano fatto apposta. Perché Sanremo, cioè il Festival, vale oro. Per la città dei fiori, per la Liguria e soprattutto per la Rai. Perché più se ne parla e più lo si vede. E più lo si vede e più gli incassi pubblicitari salgono. La previsione per quest’anno è di 33 milioni di euro, tre milioni in più dell’anno scorso.

Ci sono momenti in cui pensi l’abbiano fatto apposta perché nemmeno un gaffeur di professione saprebbe fare certe figuracce (tipo: «abbiamo scelto questa ragazza molto bella anche per la sua capacità di stare vicino a un grande uomo stando un passo indietro»), e invece di scusarsi, ripetere all’infinito «sono stato frainteso».

Ci sono momenti in cui pensi l’abbiano fatto apposta perché non puoi credere che in un Festival che si presenta dicendo «sarà incentrato sul rispetto delle donne» venga invitato un trapper come Junior Cally, il quale – nonostante quello che ora sostiene – canta la donna senza alcun rispetto, inscenando in un video (lui dice «per denunciare») un femminicidio.

L’avessero fatto apposta sarebbero stati dei cinici di prima categoria. Gente col pelo sullo stomaco pronta a qualunque cosa per un po’ di successo. Invece, temiamo non l’abbiano fatto apposta. Hanno fatto tutto questo perché, accecati dalla voglia di vincere sempre e a ogni costo, sembrano avere dimenticato qual è il vero ruolo che ancor oggi hanno Sanremo e la Rai.

Hanno scordato che, nonostante tutto, è la vetrina televisiva più importante del Paese. E qualunque azione o parola andrebbe pesata e soprattutto pensata attentamente. Invece, spesso si fanno le cose credendosi furbi e col manuale Cencelli in mano, dando un contentino a destra e uno a sinistra. E quando si pensa ai cantanti da invitare «che piacciono ai giovani» a volte ci si ferma ai numeri delle visualizzazioni dei video che hanno o al numero di ascolti che ottengono su piattaforme come Spotify. Come se essere visti o ascoltati fosse di per sé un merito assoluto, indipendentemente da ciò che si canta. E quando qualcuno li richiama alle loro responsabilità, ecco che tutto si trasforma presto in caos, dove ragioni e torti sembrano valere uguali e dove le urla sovrastano qualunque ragionamento. Le parlamentari protestano per la presenza di Cally? Pensino a ciò che accade in Parlamento. L’Aiart protesta? Sono i soliti cattolici bigotti che invocano la censura. Poi arriva Salvini e fa la sua gaffe: «Mi vergogno di quel cantante che paragona le donne a tr..., violentate, sequestrate, stuprate e usate come oggetti. Lo fai a casa tua, non in diretta sulla Rai e a nome della musica italiana». Per la serie: a casa tua puoi farlo, l’importante è che non lo fai in pubblico. A questo punto il cortocircuito è perfetto.

Così il centro del problema si sposta. E tutto si trasforma in tifo. Mentre qui il problema c’è ed è più grande di quello che sembra. E si divide in due parti. La prima: non basta che la Rai annunci di promuovere la figura femminile, ma deve farlo sempre, avendo anche il coraggio di dire di no a furbizie e scorciatoie. Deve ricordarsi che non è né Mediaset né Sky né Netflix, dove il profitto è tutto. Ma una primaria agenzia culturale (e, dunque, formativa) italiana che ha siglato con lo Stato, cioè con ognuno di noi, un preciso Contratto di Servizio.

La seconda parte del problema riguarda gli adulti, molti dei quali giudicano un mondo, quello dei trapper, di cui spesso non sanno quasi nulla. Non solo che in quelle canzoni le donne sono sempre rappresentate come oggetti da usare e dove alcool e droga sono normali, ma che i più grandi fan di questi artisti sono i ragazzini delle elementari e delle medie.

Oggi – dicono nell’ambiente – Cally è cambiato. Lo speriamo tutti. Ma servono fatti, non parole. Dicono anche che la sua sia arte. E che in quanto tale non può essere soggetta a censura. Peccato che quelli che lo sostengono dimenticano due cose. La prima è che in nome della libertà non tutto può e deve essere visto o ascoltato anche dai bambini. La seconda è che tanti di quelli che oggi sostengono questa posizione, nel 1993, distrussero a Sanremo il cantante Nek, perché aveva presentato in gara il brano "In Te" sul tema dell’aborto. La sua colpa: era pro vita. Speriamo di sbagliarci ma temiamo che se lo presentasse oggi non troverebbe in molte parti accoglienza migliore. Perché vuoi mettere quanto fa tendenza essere dalla parte dei trapper, sempre e comunque, piuttosto che – insieme – della vita e dell’integrale dignità femminile?

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