venerdì 14 settembre 2012
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Non sembrerebbe un momento granché propizio, questo, per una visita del Papa in Libano. Benedetto XVI parte nel momento in cui dal Mediterraneo, dal Nord Africa al Medio Oriente, si alzano nuove vampate di incendio. L’immagine del cadavere straziato dell’ambasciatore americano in Libia è un cupo monito a chi sperava un nuovo corso in quel Paese. E poi le tensioni in Egitto; e a Nord del Libano, la Siria dei massacri; a Sud, Israele, così piccolo sulla carta geografica tra i colossi arabi, così perennemente inquieto; e ancora, a Est, lontana eppure vicina, l’oscura minaccia dell’Iran. Il Papa parte. Come, con cosa nel cuore, per un viaggio così? Il testo della Udienza di mercoledì scorso, dedicato alla preghiera nel libro dell’Apocalisse, suona singolarmente vicino a quel può avere nell’anima un cristiano pellegrino per tormentati Paesi. La strada per saper leggere i fatti della storia, ha esordito il Papa, è «il rapporto costante con Cristo». Solo in questo rapporto – che è poi la preghiera – impariamo a vedere le cose in modo nuovo. Cristo «guida a una lettura più profonda della storia»: e lo fa anzitutto invitandoci a «considerare con realismo il presente».Già questa annotazione devia parecchio da ciò che noi, semplici cristiani, abitualmente facciamo. Per riuscire a vivere tendiamo a non voler vedere la realtà com’è, appena fuori dal fragile recinto del nostro Primo Mondo – e spesso anche dentro, magari sulla soglia di casa. Se un tg diligentemente ci raccontasse ogni sera di tutte le violenze, persecuzioni, carestie che tormentano il pianeta, non lo tollereremmo. Per vivere abbiamo bisogno di non sapere, di non vedere ogni cosa; giacché messi a davanti alla opaca mole di dolore e male che ogni giorno opprime l’umanità, la maggior parte di noi sarebbe disperata (a volte non sembra quasi che per poter vivere occorra illudersi?).Invece secondo Benedetto XVI proprio dal rapporto con Cristo viene la spinta a uno sguardo realista. Ma come si fa a tenere questo sguardo? Chi scrive tornò, anni fa, da un viaggio per gli orfanotrofi di un Paese dell’Est, annientata dalla quantità di dolore incontrata. Soli in sé stessi, guardare e reggere il male e il dolore è impossibile. Eppure «come cristiani siamo chiamati a non perdere mai la speranza, a credere fermamente che l’apparente onnipotenza del Male si scontra con la vera onnipotenza, che è quella di Dio Occorre dunque credere davvero nella Croce, e nella pietra di sepolcro divelta – in Cristo risorto. Non però in uno sforzo eroico della volontà. Invece, dice il Papa, è proprio la preghiera che alimenta in noi «questa visione di profonda speranza». La speranza dunque nasce nel rapporto con Cristo; come quando un padre prende un bambino per mano, e quello lo segue anche per una strada buia, dove da solo non andrebbe mai. In virtù di questo rapporto con Cristo, «come cristiani non possiamo mai essere pessimisti»; nella certezza di un padre che conduce la storia, per i suoi tormentati e straziati sentieri, verso un destino misterioso ma buono. Pregare, dunque – questa attività agli occhi del mondo così immateriale, così astratta, inutile – come vertice del realismo. Pregare, e come? Nella fatica, nella povertà, di quale preghiera saremo capaci, se non monca, o zoppa? Ma «tutte le nostre preghiere», ha assicurato Benedetto «vengono quasi purificate e raggiungono il cuore di Dio. Non esistono preghiere inutili; nessuna va perduta». Nessuna preghiera che apra almeno uno spiraglio a Cristo, va perduta. E in questa certezza sovrana il successore di Pietro, a 85 anni, parte, pellegrino in una regione sofferente sotto a mali opprimenti, sotto a una violenza cieca. Quasi implicitamente chiedendo, per questa missione fra uomini a noi estranei, da noi lontani, preghiere. Povere, magari; o balbettanti. Quel che sappiamo fare. Non importa: nessuna, dice il Papa, andrà perduta.
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