La politica, i senzatetto e noi che siamo il «rischio»
domenica 3 febbraio 2019

Noi umani certe volte siamo davvero creature distratte: ci concentriamo su un pericolo che veloce ingigantisce nella nostra mente, prende forma temibile e minacciosa. E non ci accorgiamo che dal basso, piano piano sta crescendo una realtà molto più pericolosa, vicino a noi, tra di noi.

È quello che sta accadendo nelle nostre stanche società occidentali: frastornati dalle crisi economiche ricorrenti, come pugili suonati, abbiamo ormai paura di tutto, soprattutto di quelli diversi da noi, stranieri lontani improvvisamente fattisi troppo vicini: 'Potrebbero sottrarci un lavoro, una casa a canone agevolato, un posto all’asilo di nostro figlio...'. Per altro verso (qualcuno direbbe da sinistra, ma oggi destra e sinistra davvero sono categorie improponibili) c’è un’altra parte di popolazione che teme 'il tiranno', un leader esotico e folle, il mega-presidente di una nazione potente o perfino un capopartito baldanzoso di casa nostra che parla per parole d’ordine. Non che essi non rappresentino un rischio. Ma qui si intende invitare a riflettere su un fenomeno più carsico, quotidiano, apparentemente inoffensivo.

Si parla di noi, gente comune, che lavora, porta avanti la famiglia, la sera guarda la televisione e manda giù dosi massicce di violenza, attentati, guerre, migranti che annaspano tra le onde dell’ultimo naufragio, terrorismo. Una lenta 'mitridatizzazione' rispetto alla violenza, di cui ultimamente siamo per lo più consapevoli, ma che non siamo in grado di arginare, né per noi né per i nostri figli. Commentiamo sconsolati tra una minestra e un’insalata: 'La televisione non si può più guardare', ma poi continuiamo a guardarla, sapendo che cambiare canale non serve a cambiare menu. Perché la cultura dell’informazione, con rarissime eccezioni, è ormai omologata, parla con gli stessi codici, lo stesso lessico. E allora via con immagini di esplosioni, via con la descrizione morbosa dell’ultimo delitto, un femminicidio oppure l’omicidio di un perdente, di un rifiuto umano. Già quei 'sacchi umani' abbandonati per strada o sotto un portico che sono la punta dell’iceberg di un fenomeno, l’impoverimento progressivo della popolazione, che sembra inarrestabile.

La Caritas di Roma un paio di settimane fa ne ha fatto nel suo Rapporto una fotografia impietosa, da cui emerge – per la Capitale come per il Paese – l’acuirsi della divaricazione sociale tra una quota ridotta di fortunati e una massa di poveri assoluti e a rischio povertà. In mezzo una classe media insidiata dalla crisi. Ma per tutti i poveri continuano ad essere solo i barboni, gente troppo diversa. E così, l’altra sera, il notiziario ci ha parlato di un clochard bruciato da due ragazzini: per cupa noia, per vedere l’effetto che fa. E abbiamo visto la telecamera avvicinarsi senza pudore a quella povera macchia carbonizzata, mentre il cronista raccontava il fatto con voce monotono, da previsioni del tempo: l’accaduto, le motivazioni dei ragazzi. Senza un sussulto di umana pietà, senza un moto di sdegno nella voce. Qualcosa che ci desse un segno, che, sì, si stava parlando di un orrore senza fine. Ma niente, un battito di ciglia e si passa a un servizio di costume.

È questo il pericolo, la realtà pericolosa che sta crescendo lenta tra noi. È questo il mostro che dobbiamo temere prima ancora del leader folle. Dobbiamo vigilare affinché l’assuefazione alla rappresentazione mediatica della violenza non schiacci l’umana pietà che rappresenta forse il nocciolo più puro delle nostre anime disorientate. L’umana pietà per chi, come noi, è questo straordinario impasto di carne e di spirito, di materia e di divino. E soffre, come soffriremmo noi al suo posto. C’è bisogno di una scossa salutare: la manifestazione e la preghiera promosse anche quest’anno contro l’indifferenza dalla Comunità di Sant’Egidio sono un segnale di speranza per recuperare il significato di una cultura che metta al centro la dignità umana. Una ricerca cui tutti con umiltà possiamo contribuire. Ognuno secondo i suoi talenti.

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