La politica a breve termine che guarda ai risultati immediati porta al declino
mercoledì 28 giugno 2017

Qualche settimana fa tutti gli organi di stampa hanno riportato la notizia secondo cui la crescita economica in Italia è più sostenuta del previsto. In particolare, secondo i dati Istat nel primo trimestre 2017 la crescita del Pil è stata dello 0,4% sul trimestre precedente e all’1,2% su base annua.

Questo dato ha destato grandi entusiasmi in virtù del fatto che l’economia italiana è stagnante da troppo tempo e quindi anche una performance positiva seppur lontana da un livello desiderabile è da considerarsi in ogni caso una buona notizia. Come è noto, il Pil è da molti criticato perché sarebbe una misura imperfetta del nostro benessere. Esso in ogni caso è utilizzato quale base di tutte le misurazioni ufficiali in sede nazionale e internazionale. Pur non volendo entrare nel dibattito in merito alle nuove misurazioni proposte alternative al Pil, una delle critiche più fondate ma meno citata è quella relativa al fatto che esso è sovente analizzato e utilizzato nella sua misurazione di breve periodo, vale a dire il tasso di crescita trimestrale. Questa è sicuramente una prassi che impone delle riflessioni profonde in quanto foriera di conseguenze sostanziali nell’approccio che i policymaker hanno rispetto alla definizione e alla narrazione della politica economica.


L'attenzione eccessiva che dedichiamo alle notizie di crescita del Pil ogni tre mesi deriva in buona parte dalla diffusione anni addietro di quel comportamento che è divenuto famoso con un orrendo neologismo, vale a dire lo shortermismo (il breve termine). Esso è utilizzato solitamente per indicare il carattere e comportamento dei manager di impresa che sono influenzati in maniera decisiva dall’attenzione ai risultati di breve termine. Questo è particolarmente vero per le imprese quotate nei mercati azionari che producono relazioni trimestrali per investitori e analisti. In realtà sembra che vi sia stato, però, un contagio di shortermismo anche in altri ambiti e in particolare in quello delle decisioni politiche. Negli ultimi anni in una sorta di rincorsa all’immaginata efficienza dei mercati finanziari, l’orizzonte temporale delle classi dirigenti è divenuto sempre più breve. Da un lato questo è stato favorito dalla destrutturazione dell’ordine bipolare della Guerra Fredda che assicurava la stabilità dinamica dei meccanismo di governo. Dall’altro la pervasività dei nuovi canali di comunicazione ha aumentato la velocità di trasmissione delle informazioni modificando le necessità e le modalità della narrazione politica.

In ultimo, questo insieme di fattori, però, ha avuto un impatto decisivo sulle modalità di formulazione della politica economica. Invero, le classe dirigenti tendono quindi a concentrarsi su obiettivi di breve se non brevissimo periodo e questo è particolarmente vero in quei Paesi caratterizzati da fragilità e frammentazione istituzionale. In concreto, questo significa che solo pochi decisori hanno l’incentivo a elaborare una politica economica che dia i suoi frutti tra cinque o dieci anni. Al di là della retorica oleografica, invece, un numero significativo degli appartenenti alla classe politica ha come obiettivo quello di rimanere o di conquistare il potere e pertanto sa che i periodi di recessione conducono con probabilità elevata a una sconfitta elettorale. La narrazione convincente di una crescita del Pil nei mesi precedenti a una tornata elettorale sembra poter contribuire in maniera significativa al risultato e quindi qualsivoglia politica economica rivolta a questo obiettivo appare desiderabile. In concreto chi detiene il potere tenderà ad aumentare la spesa pubblica prima delle elezioni in modo da favorire gruppi o categorie sociali specifiche. L’aumento di reddito disponibile e dei consumi costituisce la chiave di volta per il raggiungimento del consenso.

In caso di vittoria, i governanti in carica continueranno a godere dei privilegi di chi governa, mentre in caso di sconfitta potranno in ogni caso disporre di un’importante arma comunicativa, vale a dire accusare i vincitori di non saper gestire un elevato debito pubblico o comunque di non porre in essere politiche economiche significativamente espansive a favore dei cittadini. In parole più semplici, ogni maggioranza tende ad aumentare la spesa pubblica per essere confermata o comunque per creare un vincolo di azione a una maggioranza rivale nel caso questa vincesse. Pur nella sua semplicità questo spiega perché il debito pubblico tende ad aumentare in maniera significativa con il passare del tempo.

Allo stesso tempo questo spiega indirettamente anche perché l’esistenza di un vincolo esterno, come ad esempio quello dell’UE, può fare bene a un Paese in cui l’incertezza politica sia purtroppo una costante. In linea generale, la pervasività dello shortermismo può determinare tassi di crescita economica positivi nel breve periodo ma senza necessariamente migliorare la capacità di un’economia di mantenersi su un percorso di sviluppo sostenibile in un periodo lungo. Sotto molti aspetti la visione di breve termine nella politica economica ricorda una costante politica di guerra. A ben pensarci infatti, il comportamento più shortermista è esattamente la guerra. In molti casi, la guerre non sono altro che scelte politiche di appropriazione che si concretano in tempi brevi ma con grandi costi. Esse soddisfano nel breve periodo alcune esigenze sociali ma nel lungo periodo esse si mostrano come fattori di un inevitabile declino economico.

In questo senso, l’esempio – seppur estremo – della Germania Nazista è emblematico. La conquista politica e militare dell’Europa rispondeva anche alla necessità di avere sempre nuovi asset di cui appropriarsi per sostenere i consumi e l’economia tedesca. La Germania di Hitler, infatti, è stata – a dispetto delle false credenze – un fallimento economico su larga scala. In breve, una volta costituita un’economia di guerra, la guerra rimane l’unica opzione per sostenere un’illusoria crescita economica di breve periodo e che nel giro di pochi anni mostrerà in ogni caso i segnali del necessario fallimento. L’esempio nazista è sicuramente estremo ma chiarisce in maniera vivida l’idea secondo cui quando si costruisce un’economia fondata su visioni di breve periodo e in particolare sull’aumento del reddito disponibile e dei consumi ad ogni costo per garantirsi il consenso politico nel breve periodo, si costringe il sistema economico a una crescente fragilità e quindi al declino.

Se quindi vogliamo riportare l’economia su un percorso di sviluppo di lungo periodo è necessario in primo luogo riformulare la narrazione della politica economica. In questo senso, senza andare a scomodare nuove misurazioni, è possibile andare a riutilizzare in maniera più compiuta e diffusa indicatori che già conosciamo ma che sono sovente dimenticati. Considerando ad esempio il Pil pro-capite che può essere interpretato come una misura più appropriata dello sviluppo di lungo periodo, allora gli entusiasmi di qualche settimana fa tendono a smorzarsi. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale il Pil pro-capite in termini reali nel 2016 è ancora abbondantemente al di sotto del valore del 2008. Se invece consideriamo il Pil per addetto (il rapporto tra Pil e persone occupate, dati: Banca mondiale) per misurare la produttività di un sistema economico, verifichiamo che nel 2016 essa è tornata indietro ai livelli del 1996. In ultimo, se guardiamo al peso degli investimenti totali sul Pil nel 2016 esso è pari al 17%. Questo costituisce il valore più basso a partire dal 1980. Invero, già solo questi tre dati suggeriscono l’idea che l’Italia a dispetto dei facili entusiasmi sia in una fase di declino vischioso. Piuttosto che negarlo, esaltando nel contempo vittorie contabili di Pirro, le classi dirigenti dovrebbero avere la responsabilità di inserire tali variabili non solo tra gli obiettivi di politica economica ma anche nella narrazione politica. Ad esempio, un aumento del tasso di investimento dovrebbe essere più rilevante di un aumento del Pil su base trimestrale.

Invero, questo cambio di narrazione in merito a obiettivi e risultati di politica economica è una precondizione per riformulare un’economia che non sia dipendente da una serie pressoché infinita di stimoli di breve periodo. Recuperare la capacità di narrare la necessità del tempo nelle scelte di politica economica è una scelta indifferibile. In alternativa, il rischio è che lo shortermismo si traduca come in tempi passati in scelte di guerra che non farebbero altro che accelerare il declino e minare la stabilità della nostra democrazia.

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