sabato 30 maggio 2020
Appresa dalla madre Giuditta Alghisi la devozione al Paraclito, Paolo VI fece della sua azione uno dei riferimenti del pensiero. Fino alla «civiltà dell’amore»
L'arcivescovo Montini durante una visita pastorale a Milano

L'arcivescovo Montini durante una visita pastorale a Milano

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La Chiesa cattolica ha celebrato ieri la memoria liturgica di Paolo VI, nel giorno in cui si ricorda l’ordinazione sacerdotale di papa Montini, avvenuta a Brescia il 29 maggio del 1920 – come Avvenire ha già ricordato più volte questa settimana – rendendo in tal modo omaggio all’altissima concezione che il futuro Pontefice ha sempre manifestato per la dignità sacerdotale. Quest’anno ricorre il centesimo anniversario di quella ordinazione, l’«investitura divina» che portò a compimento la vocazione del giovane Giovanni Battista Montini introducendolo in quel «mistero enorme vissuto», come scrisse – ormai Papa – in un appunto del 1973.

Per l’ordinazione del figlio secondogenito, impartita dal vescovo di Brescia, Giacinto Gaggia, nella calda mattinata di quel 29 maggio, Giorgio Montini preparò e fece stampare una immaginetta che riproduceva un’invocazione del papa Pio X: «Concedi, o mio Dio, che tutte le menti si uniscano nella Verità e tutti i cuori nella Carità». Proprio in quel giorno di cent’anni fa venivano così profeticamente accostate carità e verità, i due cardini che avrebbero sempre orientato l’azione pastorale e spirituale di Giovanni Battista Montini («perché quando la carità è spinta all’estremo, alla sua dimensione sublime – confiderà molto tempo dopo Paolo VI a Jean Guitton – diventa carità della verità»). Quanto la carità fosse prerogativa del sacerdote, Montini lo aveva annotato in un commento a san Paolo: «Niente è più grande dell’ufficio pastorale. Niente è più conforme alla carità di Dio per gli uomini e alla carità degli uomini per Dio», scriveva negli anni Trenta. E ancora da arcivescovo di Milano non si stancava di raccomandare ai suoi sacerdoti ambrosiani «l’amore alla Chiesa! Pare superfluo farne menzione, offensivo farne raccomandazione, tanto di questo amore facciamo ragione di vita e abitudine mentale»; e concludeva esortandoli ad «amare la Chiesa con fervore sincero, con fervore nuovo, con fervore divorante e dilatante».

L'amore alla Chiesa permeò profondamente il ministero sacerdotale di Montini, orientando in ogni momento il suo percorso e indirizzandone l’intera opera pastorale in tutte le fasi della sua vita. Anche per tale ragione il futuro Paolo VI, che divenne sacerdote nel sabato che concludeva l’ottava di Pentecoste, celebrò sempre con particolare fervore la «festa gaudiosa di Pentecoste» – com’ebbe a definirla nel 1963 –, che rappresentava il compleanno della Chiesa, in quanto l’effusione dello Spirito Santo sugli apostoli radunati nel Cenacolo era stato «l’avvenimento che le diede i natali». «Oggi è nata la Chiesa – disse Montini ai fedeli milanesi nella Pentecoste del 1955 –. È nata dallo Spirito Santo», e quindi, in quel giorno, anche «il sacerdozio si è iniziato».

Giovanni Battista Montini aveva coltivato sin da ragazzo la devozione allo Spirito Santo, appresa dalla madre, Giuditta Alghisi, la quale quotidianamente rivolgeva una preghiera a Colui che considerava «il grande dimenticato». Così non era a casa Montini, perché tutte le decisioni importanti che Giuditta o il marito Giorgio dovevano prendere erano sempre precedute da una novena al Paraclito. «Lo dovremmo costantemente invocare – scriveva la donna – perché è l’amore tra il Padre e Figlio». Non sorprende quindi l’attenzione e l’importanza che Paolo VI – illuminato dalla fede e dalla testimonianza materna – attribuì sempre alla festività di Pentecoste, dedicando, sin dalla giovinezza a questa solennità molte riflessioni, predicazioni e meditate omelie. Proprio la festa di Pentecoste dava regolarmente a Montini l’occasione di soffermarsi sulla natura e la realtà della Chiesa. «Amare la Chiesa! Ecco il frutto della Pentecoste », spiegava infatti ai suoi fedeli ambrosiani lasciando trasparire ancora una volta quell’amore alla Chiesa che papa Francesco – ricordando Paolo VI nel cinquantesimo dell’elezione al soglio pontificio – definì «un amore appassionato, l’amore di tutta una vita, gioioso e sofferto».

Sin dall’arrivo a Milano, nel primo dei suoi nove discorsi di Pentecoste, Montini si dimostrava consapevole delle critiche che venivano rivolte da più parti all’istituzione ecclesiastica: «Oggi è di moda combattere la Chiesa – spiegava l’arcivescovo nella Pentecoste del 1955 –. Questo riesce anche facile. Facile è deridere la Chiesa; basta metterne in ridicolo il suo aspetto umano. E nulla è più vicino al ridicolo quanto la deformazione del sublime». Un tale modo di sentire andava non solo contro la comunità ecclesiastica ma contro quei princìpi di libertà di coscienza, di pensiero, di culto, di cittadinanza che la Chiesa sosteneva e promuoveva. Montini ebbe modo di svelare quella che era la sua idea di Chiesa quando, nel novembre del 1960, fu chiamato a inaugurare la Missione di Firenze indetta dal cardinale Elia Dalla Costa. Nel suo articolato discorso introduttivo, parlando di «ciò che la Chiesa è e non è», l’arcivescovo di Milano ammise che «la Chiesa è un problema», riconoscendo le manchevolezze del mondo ecclesiastico e avvertendo la sproporzione che passa fra ciò che la Chiesa appare e ciò che essa dovrebbe essere, e questo suscitava «un dolore continuo e cocente per chi ama la Chiesa e per chi ha in essa qualche funzione responsabile». Era necessario invece «far capire e amare il volto della Chiesa come volto di Madre a tanti di noi moderni, che scorgiamo in essa non una faccia amabile e viva ma un viso immobile, un viso marmoreo, senza movimento e senza colloquio».

Ecco dunque cos’era e cosa doveva rappresentare la Chiesa: una madre, «perché ci ama come appunto ama una madre, più d’ogni altro». «Ci ama – continuava Montini, esprimendo la sua metafora con parole e immagini significative – curvandosi sopra ogni nostra condizione umana: fanciulli ci accoglie, giovani ci esalta, adulti ci benedice, vecchi ci assiste, morenti ci conforta, defunti ci ricorda, poveri ci preferisce, malati ci cura, peccatori ci richiama, pentiti ci perdona, disperati ci ricrea». Solo se compresa in questa sua realtà la Chiesa potrà essere amata, «con fermezza e fedeltà non solo quando essa difende i nostri interessi e comanda cose di nostro gusto, ma altresì quando l’amore è silenzio, è rinuncia, è pericolo, è servizio, è sacrificio», come ebbe a dire l’arcivescovo nella Pentecoste del 1962, quasi gridando nel Duomo di Milano per implorare i credenti, ancora una volta, ad «amare la Chiesa».

Molti anni dopo, nel marzo 1971, incontrando i fedeli di una parrocchia romana, Paolo VI stupì tutti quando, parlando a braccio e tralasciando pure il plurale maiestatis allora in uso ai Pontefici, confessò di essere «folle d’amore per la Chiesa» e invitò i presenti a condividere questo sentimento e ad amare la Chiesa «anche per i suoi difetti, che sono i bisogni che la Chiesa ha. Ma soprattutto amatela perché davvero nasconde Cristo e dà Cristo; ha dei poteri miracolosi, sacramentali; comunica la Sua vita; ha il segreto di metterci in comunicazione diretta, vivente con Cristo ». Le medesime esortazioni il Papa le rivolse anche al collegio cardinalizio, nel 1976, consapevole che, seppur «oggi un germe di disunione è entrato insensibilmente in talune frange della comunità ecclesiale; è vero che il dubbio e l’equivoco si sono infiltrati qua e là; è vero che la Chiesa soffre in certi Paesi per la mancanza di libertà religiosa», tuttavia in essa opera la «civiltà dell’amore».

Questa espressione, che fu usata da Montini già negli anni Venti in una lettera scritta al fratello Lodovico, venne ripresa e pronunciata pubblicamente per la prima volta da Paolo VI proprio nella festa di Pentecoste del 1970 perché «è la civiltà dell’amore e della pace che la Pentecoste ha inaugurato». Volutamente, nell’Anno Santo del 1975, Paolo VI firmò la sua esortazione apostolica Gaudete in Domino (la prima di un Pontefice sulla gioia cristiana, ripresa e citata da papa Francesco nella Evangelii gaudium) proprio nel giorno di Pentecoste, perché la gioia cristiana è «gioia nello Spirito Santo». E come annoterà negli appunti presi durante il ritiro spirituale compiuto in preparazione all’Anno Santo 1975, per Paolo VI «l’effusione dello Spirito Santo è un fatto reale, storico e soprannaturale, che interessa in pieno la nostra teologia, la vita della Chiesa e la nostra vita interiore; bisogna tenerlo ben presente e bisogna meditarlo senza fine».

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