Giovedì 8 luglio scorso. È sera quando un gruppo di giovani barbuti, a torso nudo, a bordo di potenti moto, armati di tutto punto, sfrecciano per il Parco Verde in Caivano, sparando all’impazzata e seminando terrore. È una 'stesa', una delle tante, per dire che da quel momento i vari clan della camorra, con i loro affari milionari, dovranno fare riferimento a loro. Una sorta di filosofia del linguaggio. Gli 'addetti ai lavori' capiscono, i cittadini tremano. Le forze dell’ordine si danno da fare, vengono presidiate le strade e le piazze. Un vertice con il prefetto di Napoli, il questore, il sindaco, cui sono invitato anch’io, si tiene nella scuola. Chiudo l’oratorio e il campo estivo, ho paura che qualche bambino possa essere coinvolto, perdere la vita o rimanere ferito. Se dovesse accadere non me lo perdonerei mai. Seguono giorni di una strana quiete.
Un silenzio artificiale cala sulle afose giornate estive. Per le strade i bambini non giocano più, la gente parla sottovoce. Ma tutti sanno tutto. La rassegnazione e lo sconforto la fanno da padroni. Unico sogno che tanti ancora accarezzano: scappare via da questo luogo. Parco Verde: il quartiere che mi avrebbe cambiato, ancora una volta, la vita. Un agglomerato di palazzi tutti uguali, senza infrastrutture, con pochi e illegali negozi, senza una farmacia, senza una libreria. Montagne di immondizie perennemente presenti, servizi sociali inesistenti, Comune in dissesto finanziario.
L’intera città di Caivano può contare solo su 10 vigili urbani, invece dei 64 cui avrebbe diritto. Un quartiere, il nostro, lasciato in pasto alle feroci bramosie dei prepotenti. «Che avverrà, dopo la 'stesa'?», ci chiedevamo preoccupati. Scrivo al Presidente della Repubblica. Martedì 21 settembre, con cinque ragazzi varco il portone del Quirinale. Sergio Mattarella ci accoglie con un cordiale sorriso. Adriano, un giovane appena maggiorenne, prende la parola: «Presidente – scandisce – noi non vogliamo essere i primi e nemmeno gli ultimi. Vogliamo semplicemente essere normali, ma partiamo sempre da perdenti…». Uno studente italiano, lontano dalla droga e dal malaffare, costretto a vivere in un luogo violento e malsicuro, a nome di tanti coetanei, chiede alla prima carica dello Stato, il diritto a una vita normale.
E il Presidente lo ascolta, faccia a faccia. Torniamo a casa con la certezza di avere fatto un ulteriore piccolo passo sulla giusta via. Lunedì 4 ottobre scorso. Un giovane del Parco Verde non fa ritorno a casa. Sin da subito si capisce che Antonio non si è allontanato volontariamente. Sua mamma lancia l’allarme. Sa che anche il figlio di 22 anni, come tanti, era precipitato nella maledetta trappola della camorra. L’ipotesi che possa essersi nascosto per sfuggire a una vendetta, ben presto viene scartata. Lupara bianca? Vengono i brividi al solo pensarci. Il quartiere, che lentamente era tornato a vivere, ripiomba nell’angoscia. La paura riprende a galoppare tra le case.
I ragazzi desiderosi di normalità si sentono traditi e abbandonati; gli altri, quelli che si sono lasciati ammaliare dai facili guadagni, dagli abiti firmati, dalle moto di grossa cilindrata e dalle vacanze esotiche, invece, sono elettrizzati. Parco Verde: uno dei tanti quartieri che circondano Napoli, progettati e nati con il peccato originale. Ci sono giorni che mi convinco che si siano volutamente ammassate le famiglie più povere in questi rioni periferici, degradati, abbandonati da uno Stato in tutt’altre faccende affaccendato. In fondo è la soluzione più facile. Quartieri diventati ben presto dormitori.
Luoghi dai quali chi può, scappa, lasciando la casa alla camorra. Agglomerati informi e sporchi, dai quali finanche le leggi si tengono alla larga. Dove si chiude un occhio, o forse due, anche per occultare i tanti peccati di omissione di una società matrigna che non ha saputo, o non ha voluto, dare a questi suoi figli gli stessi diritti che ha garantito ad altri. Antonio, un altro figlio che il ghetto ha stritolato, l’ho battezzato io.