venerdì 30 aprile 2010
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Nel sindacato qualcuno l’ha definito «uno sfregio, l’atto di una furia iconoclasta». Autorizzare l’apertura dei negozi il Primo Maggio – come ha deciso ad esempio il Comune di Firenze e come ha ipotizzato fino all’ultimo quello di Milano – viene considerato una sorta di "sacrilegio laico". Non senza ragione: perché così si finisce per colpire al cuore la Festa dei lavoratori, celebrata da 120 anni in quasi tutti i Paesi. Che sarà pure l’eredità lontana di un mondo ormai scomparso, di organismi sconosciuti ai giovani come la Seconda Internazionale, ma in realtà tocca una questione sempre nodale: il primato dell’uomo sulle cose.A chiedere l’apertura dei negozi, infatti, non sono tanto i lavoratori autonomi, non c’è alle spalle un’esigenza di libertà rivendicata dai piccoli esercizi a conduzione familiare, quanto la pressione dei grandi centri commerciali, delle insegne griffate dei viali dello shopping cittadino. Non vorrebbero, queste catene commerciali, perdere un sabato come il 1° maggio: proprio a inizio mese, quando ancora le buste paga dei lavoratori-consumatori sono fresche di consegna e conservano un loro relativo peso. E pazienza, pensano, se per vendere qualche giacca o un mobile in più si obbligano tanti lavoratori del commercio a prestare la loro opera per l’ennesima volta in giorno festivo. Come non bastassero le domeniche di apertura straordinaria – fino a 32 l’anno in alcune regioni italiane – il 25 aprile già ceduto e il Natale sempre più stretto d’assedio.La crisi, si sostiene, si batte moltiplicando le occasioni d’acquisto, facendo ripartire i consumi interni. Una teoria economica tutta da verificare, quando a far difetto sono le entrate strettamente necessarie per molte famiglie. Ma che, soprattutto, svela il vero ribaltamento di valore nel quale si rischia di lasciar scivolare questo Primo Maggio, così come le domeniche e le altre festività. Al centro della festa viene posta la merce, lo scambio profittevole, tutt’al più un tempo libero da riempire di divertimento a pagamento. Una deriva, neanche troppo lenta, che ci impoverisce, svilendo noi stessi. Perché ribalta la soggettività stessa della festa: l’accento, infatti, non cade più sul lavoratore, sul suo contributo creativo alla trasformazione del mondo. Non ci si ferma più a riflettere, a discutere e – perché no – a lottare per migliorare questa condizione così profondamente umana, ma si tenta di confinare la persona nello stretto e condizionato ambito della sua capacità di acquistare e di consumare.Il Primo Maggio – come le domeniche – viene frammentato: c’è chi lavora e chi no, anzi chi deve lavorare perché altri non si fermino dall’acquistare. Il tempo della festa viene perciò scomposto, sminuzzato in tanti periodi di "riposo" singolo. Perdendo così la possibilità di sincronizzare con gli altri il proprio tempo, di fare "festa assieme", veramente liberi.È quanto di più lontano possa esserci da quella "Festa dei lavoratori" che fu conquistata alla fine del 1800 sulla base di un’esigenza assai avvertita: avere «Otto ore per lavorare, otto ore per dormire e otto ore per vivere». Che poi, a ben vedere, è un obiettivo valido ancora oggi. Per chi, costretto a casa dalla disoccupazione, 8 ore di lavoro le desidera. E per quanti, schiacciati da turni e orari non poi così diversi da quelli di due secoli fa, vorrebbero poter godere di quelle altre 8 ore per vivere.
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