mercoledì 23 ottobre 2013
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Che Lampedusa non sia più l’estrema appendice dell’Italia ma «il primo lembo d’Europa» non è solo una bella espressione, ma una constatazione imposta dall’evidenza dei fatti e un criterio per le scelte sull’immigrazione. A questa immagine spesa ieri mattina nel suo intervento al Senato, alla vigilia del Consiglio europeo di Bruxelles, Enrico Letta ha affidato il senso di un’urgenza che – come si va dicendo da tempo – non è più solo affare dell’Italia, ma deve far sentire coinvolta l’intera Unione. Lo impone l’entità dei numeri, con le migliaia di donne e uomini che cercano rifugio e futuro in Europa, lontana da quel braccio di mare che è solo una tappa – troppo spesso letale – di un’indicibile via crucis. Lo consiglia il fatto che la gran parte di queste persone intende utilizzare l’Italia solo come primo approdo per poi proseguire il viaggio verso altri Paesi Ue. Ma lo esige soprattutto la materia prima della quale è impastata l’anima europea, la civiltà che ha plasmato ciascuno di noi, l’umanesimo cui sono ispirate le istituzioni comunitarie, e la cultura della dignità umana di cui profuma la terra d’Europa da Stoccolma all’Isola dei Conigli. Chi approda su quella prima frontiera a Sud delle terre dove batte la bandiera blu con le stelle deve poter sentire di essere al sicuro, prima ancora che per norme più o meno illuminate, per un codice condiviso di rispetto della vita e di solidarietà efficace che detta legge nelle coscienze e nelle strutture pubbliche.Cresciuto a una grande scuola europeista, il capo del governo italiano conosce bene a quali princìpi fondanti il destino comune del continente può appellarsi mentre ricorda che dopo tragedie come quella di Lampedusa «la campana suona per tutti, per l’Europa unita e per ciascuno degli Stati membri, anche il più lontano dal Mediterraneo». E sente che è un dovere per il primo ministro del Paese nel quale è stato firmato il Trattato costitutivo dell’Unione dire con energia che «l’Europa per la sua stessa storia non può stare a guardare, se lo fa muore insieme alle centinaia di uomini, donne e bambini che perdono la vita mentre cercano un’occasione di riscatto lontano da casa». Adenauer, De Gasperi e Schumann non potrebbero che sottoscrivere gli sforzi di chi davanti a un fenomeno epocale come quello migratorio chiama giustamente in causa i mattoni di cui è costituita la casa comune europea, princìpi che hanno dettato la scelta di un cammino comune tra Paesi a lungo ostili tra loro. Ma qualcuno è ancora in grado di intenderli? O evocare la solidarietà tra Paesi membri dell’Unione è solo un nobile appello a ideali alti quanto logori destinato a perdersi nel gioco di specchi delle miopie nazionali? Il dubbio sorge constatando la distanza abissale tra lo sforzo di ridestare l’anima comunitaria del continente e la sua insistita negazione nelle scelte delle istituzioni europee. Quando di mezzo c’è lo statuto della persona umana, direttive e risoluzioni infatti finiscono troppo spesso per assecondare le istanze individualiste di fazioni politiche e culturali e di molto ben organizzate lobby allergiche a una istituzione geneticamente solidaristica come la famiglia naturale, determinate a manipolare la vita umana trattandola come "cosa" per obbedire a desideri eretti a legge, impegnate ad affermare che l’aborto è un «diritto umano» a scapito del diritto del più vulnerabile alla vita e alla protezione. Se la vita non trova rispetto sin dal suo incerto sorgere, come potremo riconoscere nell’immigrato, nel giovane, nell’anziano quella comune umanità che ci ordina di tendergli la mano?L’ultimo tentativo di manomettere il codice umanistico europeo – la risoluzione su «Diritti e salute sessuale e riproduttiva», un intruglio di politicamente corretto e di individualismo iperliberista – è sfumato ieri all’Europarlamento a un metro dall’approvazione finale, per obiezioni procedurali e solo grazie alla tenacia di un drappello di deputati ostinatamente convinti a difendere un’Europa che sa riconoscere nell’accoglienza del più indifeso la sua stessa ragion d’essere.Il premier Letta fa dunque bene a ricordare qual è l’Europa che vogliamo, quella dei princìpi irrinunciabili, che sa scorgere in Lampedusa un’occasione per mostrarsi degna dei suoi padri e non una grana molesta. Ma quanti sono ancora in grado di intendere questa lingua natìa? Anche sul piano umano, questo continente è da ri-alfabetizzare. E la memoria e la parola dei cristiani, la testimonianza di Francesco, papa venuto dalla «fine del mondo», può davvero essere preziosa.
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