mercoledì 12 febbraio 2014
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Si susseguono ormai da troppi anni fasi politiche convulse che, di volta in volta, hanno messo a sempre più dura prova la tenuta del nostro sistema istituzionale. Che all’origine di queste convulsioni figurino emergenze di natura economica o fibrillazioni innescate da "casi" di volta in volta giudiziari o giornalistici, cambia poco: il panorama che emerge a ogni nuovo strappo si presenta via via più offuscato, le prospettive di pacificazione interna – premessa indispensabile delle riforme che tutti a parole riconoscono necessarie – si allontanano, il rischio di ulteriori avvitamenti nella crisi economica si riaffaccia come un incubo ricorrente.Ancora una volta, nelle prossime trentasei ore, il sistema Italia si gioca probabilmente buona parte delle sue chance di ripartenza. La prima cruciale domanda è: fino a che punto i diversi attori che occupano la scena di questo ennesimo dramma ne sono consapevoli? Rispetto a dodici mesi fa, quando si andò al voto con la prospettiva di un tratto di strada comunque ancora lungo da percorrere per poter intravvedere l’uscita dal tunnel, il traguardo della ripresa appare sensibilmente più vicino. Ma è ancora tutt’altro che certo e garantito. Davvero conviene a qualcuno sfogliare all’indietro le pagine di un calendario che vorremmo consegnare agli archivi?Sono interrogativi che piacerebbe considerare retorici, ma che purtroppo restano aperti anche alle risposte più esasperate, foriere di sbocchi deprecabili e, a parole, esclusi dai più. A cominciare da quello di un ritorno alle urne senza le nuove regole elettorali considerate indispensabili e senza almeno l’avvio di un riassetto istituzionale atteso da decenni. Non sarebbe la prima volta, nella nostra storia repubblicana, che una legislatura finisce per concludersi in modo traumatico, contro la stessa volontà della maggioranza uscente.Non a caso, in queste stesse ore, la "sala situazione" del Quirinale è al lavoro in permanenza, per scongiurare un esito ritenuto pernicioso per il Paese. Checché se ne dica o se ne favoleggi nella pubblicistica più o meno specializzata e più o meno "interessata", è del tutto normale che il capo dello Stato verifichi con imparzialità la tenuta del quadro politico-istituzionale, contribuendo a garantirne gli equilibri interni e la credibilità internazionale, pur nel rispetto della volontà espressa dai legittimi rappresentanti dell’elettorato. L’attenzione generale resta tuttavia concentrata sul partito di maggioranza relativa, la cui direzione di domani segnerà quasi certamente l’atto finale della vicenda in corso. Al Pd appartengono sia il premier in carica, Enrico Letta, a quanto pare deciso a rilanciare l’azione dell’esecutivo, tentando di completare l’azione di «servizio» alla quale si risolse nel momento più nero della legislatura, sia il segretario, Matteo Renzi, ancora fresco di un’ampia investitura della sua base e desideroso di marcare con il suo avvento una fase realmente nuova. A entrambi il presidente della Repubblica chiede in questi momenti di trovare una via d’uscita condivisa e tale da reggere tanto alle future prove parlamentari quanto alle sfide di una governabilità sempre complessa.Fuori dal "Palazzo", intanto, gli italiani stanno a guardare, ben poco interessati a rivalità personali e a riesumate ipotesi di staffette con annessi giochi di poltrone. Molta più attenzione, invece, riserveranno agli effetti concreti di quanto avverrà nelle stanze di un potere alle prese con interminabili, troppo spesso incomprensibili, lacerazioni interne. Il timore è che il costo di nuovi traumi finisca a carico di chi già da tempo paga alla crisi prezzi altissimi: a cominciare dalle famiglie e dai loro membri più deboli evocati ieri di nuovo dal presidente della Cei, cardinale Bagnasco: i bambini, gli anziani, i malati. A loro soprattutto vanno risparmiate altre convulsioni politiche.
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