
Il luogo dell’attentato, davanti al Museo ebraico di Washington, presidiato ieri dalle forze dell’ordine - Fotogramma
L’attentato in cui sono stati uccisi due giovani funzionari dell’Ambasciata israeliana a Washington è stato, secondo le parole del Presidente israeliano Herzog, una delle voci più sagge del Paese, «un atto spregevole di odio, di antisemitismo». Una violenza inescusabile e ingiustificabile ha interrotto due giovani vite e ha aggiunto altro terrore a una situazione, il conflitto in Medio Oriente, che sta diventando intollerabile. Colpire due civili inermi è inescusabile e alimenta un circolo vizioso di violenza di cui non si vede la fine. Ci si chiede cosa serva oggi per arrivare a quella pace disarmata e disarmante perseguita da papa Francesco e oggi da Leone XIV.
Secondo il governo israeliano la ripresa dell’invio degli aiuti a Gaza, indispensabili a una popolazione stremata e senza cibo dopo il blocco deciso dagli inizi di marzo (invio ripreso in minima parte solo alcuni giorni fa), sarebbe diventato obbligatorio per non perdere gli aiuti dei Paesi alleati. I responsabili dell’Unione Europea, storici amici di Israele, oltre all’Onu, infatti, avevano protestato nei giorni scorsi per l’intollerabile situazione di milioni di persone nella Striscia. Ma la ricerca di una soluzione e il rispetto dei diritti dei civili e del popolo palestinese non possono essere frutto solo di una coercizione diplomatica, cioè per non perdere appoggi esterni, ma devono essere parte di una politica che rispetti i diritti di tutti.
La domanda angosciata di molti è cosa serve davvero a Israele. Serve sicuramente che persegua la sua sicurezza, che ripristini una situazione di diritto in una terra martoriata, riprenda l’azione diplomatica proponendo una soluzione politica e non solo militare, che persegua la pace. Come ha chiesto ufficialmente il Ministero degli Affari Esteri italiano nella persona del Segretario generale Ambasciatore Guariglia il 21 maggio «Israele deve interrompere le operazioni militari a Gaza, deve puntare sul negoziato politico e diplomatico per la liberazione degli ostaggi israeliani e per raggiungere un cessate il fuoco che possa far ripartire un processo di pace». Non serve, invece, che continui in azioni che non rispettano i diritti umani dei palestinesi. Non serve, soprattutto, a contrastare l’antisemitismo che riemerge dietro lo schermo della critica alle politiche israeliane.
In questi anni, l’antisemitismo in Europa e in Italia è cresciuto o diminuito soprattutto in base alla situazione internazionale. Aumentava, cioè, in occasione di ogni Intifada o delle guerre nell’area, tornava sommerso nei periodi di calma. Con il Covid-19 si è riaffacciata l’antica idea del “sangue”, cioè l’accusa agli ebrei di cospirare contro vittime innocenti e bambini per avvelenare i pozzi e spargere la peste, e oggi per diffondere il virus. La guerra a Gaza ha dissepolto un odio antico? Sicuramente l’antisemitismo era aumentato spregevolmente anche nei giorni immediatamente successivi al terribile attentato del 7 ottobre, e prima della reazione israeliana contro Hamas, segno di correnti sotterranee che aspettavano solo un pretesto per tornare più visibili. Ma l’identificazione totale tra mondo ebraico della diaspora e Israele non aiuta a combattere questa piaga, e lo prova il fatto che molte comunità ebraiche nel mondo e molti cittadini israeliani non approvano gli eccessi del governo di Netanyahu, né le politiche discriminatorie.
Il presidente Herzog, nel commento all’attentato negli Stati Uniti, ha aggiunto: «Il terrore e l’odio non ci spezzeranno». In effetti, si chiede una resistenza al mondo ebraico: quella di non abbattersi all’idea che il mondo intero sia suo nemico, ma anche quella di non cedere al circolo vizioso della violenza. Dal dopoguerra sono state combattute molte battaglie in favore di diritti umani che hanno visto protagonisti vari esponenti del mondo ebraico: dalla definizione di genocidio di Raphael Lemkin, che oggi viene impropriamente rievocata per la guerra a Gaza, all’appoggio contro le discriminazioni verso gli afroamericani negli Usa, o contro l’apartheid in S7udafrica, o ancora contro la pena di morte, di cui fu coraggioso testimone Elie Wiesel, uno dei più noti sopravvissuti all’Olocausto. Le due vittime di Washington sono state colpite vicino al Capital Jewish Museum, un luogo significativo, come altri nelle nostre città, dove si lavora per la conoscenza del mondo ebraico, il ricordo storico e il dialogo. Dobbiamo contribuire tutti perché la memoria delle vittime innocenti della Shoah e la lotta all’antisemitismo non siano indebolite dalla violenza di oggi.