venerdì 5 agosto 2022
Il nostro presente rimanda sempre di più alla metafora della Torre di Babele, che segnalava due peccati: complesso di onnipotenza e avidità...
"La Torre di Babele" (1563) del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio

"La Torre di Babele" (1563) del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio - Ansa

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Il nostro presente rimanda sempre di più alla metafora della Torre di Babele, che segnalava due peccati: complesso di onnipotenza e avidità. E ambedue ce li possiamo tranquillamente caricare addosso. Nel frattempo le occasioni per preoccuparsi (o infuriarsi) sono praticamente infinite. Guerre, devastazioni ambientali, siccità, ingiustizie razziali, crisi delle democrazie... Ci regalano la percezione che l’umanità vada verso un’inarrestabile catastrofe. Possiamo protestare sui social, o parlarne con chi ci sta vicino, ma finisce lì. E di questo siamo frustrati.

La politica non ci consola, forse nemmeno i governanti contano qualcosa, li vediamo arrancare fra pietose bugie, promesse, compromessi, capaci di tamponare solo l’immediato e sostanzialmente impotenti. A Roma, caput mundi, discutono dell’immondizia da trent’anni e siamo sempre allo stesso punto, con montagne di pattume per le strade. Meglio quindi che tutte le strade non portino li. Ci hanno raccontato che bisognava lavorare alacremente per eliminare la dipendenza dal petrolio e, fra i molti orrori della guerra in Ucraina, c’è anche la scoperta che se mancano il gas o il gasolio, sono dolori. Insomma, si procede giorno per giorno. Molti lo hanno detto: è venuta meno la percezione del futuro. Dilaga la paura spegnendo la fiducia. In realtà più che paura è angoscia. Un’angoscia pervasiva che si sposta da una paura all’altra. Secondo Martin Heidegger coinciderebbe con il senso di nullità dell’esistenza. Verissimo.

Anche i nostri ragazzi pare puntino alla sopravvivenza, alla soddisfazione dell’oggi. Tutto qui e solo ora. Triste. Questo teorema però lo abbiamo sentito mille volte e vorremmo smontarlo. Ci ispirano diverse riflessioni di papa Francesco che, per fortuna, è persona gioiosa. Ci ha incitato a non mollare. Per affrontare i tempi oscuri dovremmo scoprire un nuovo umanesimo. Una boccata di ottimismo. Una constatazione gli dà ragione: l’umanità nel suo complesso non se l’è mai passata meglio. Igiene, salute, lavoro e un immaginario che ci permette di collegarci come mai era avvenuto prima. Un cellulare in fondo all’Amazonia può sembrare stonato, ma per chi sta lì isolato in una vita di sopravvivenza, può essere utile. Una certa ecologia radicale descrive l’uomo come il peggiore animale della terra. Se scomparisse, si salverebbe il pianeta. Non scherziamo, l’uomo è una bellissima creatura. Non sempre sbaglia, spesso fa la cosa giusta. E sa anche correggersi. Francesco suggerisce che contro le tante macchine tecno-scientifiche, gli algoritmi che puntano a organizzarci la vita, il virtuale che rincretinisce, dovremmo rimettere al centro l’uomo, la sua passione, la capacità di amare, la tenacia. Noi ci aggiungeremmo anche lo spirito critico, che al momento pare offuscato.

Per esempio: metà della nostra angoscia ce la procurano i media e pochi lo segnalano, per catturare i nostri bassi istinti, ci fanno scambiare per realtà un immaginario distopico, amano allarmarci con notizie terrificanti, forse vere, ma gonfiate, e litigano fra loro, creando antagonismi (e odio) che andrebbero smontati perché senza sostanza. Ecco, le parole del Papa ci piacciono perché riaprono un sentimento emarginato, si chiama speranza. La speranza della rivoluzione cristiana che ha cambiato la storia del mondo, la speranza di quando eravamo giovani, la speranza di quando crescevamo. Dovrebbe vivere anche all’inferno, la speranza, dovremmo esercitarla nei momenti più neri, nella malattia, nello sconforto. Un sorriso, uno scorcio di bellezza, un gesto di carità, la luce c’è, basta vederla e cercarla. In questo momento, che Francesco definisce una condizione «della liquidità o del gassoso» (paradossi dell’attualità) che investe «i nodi essenziali dell’esistenza umana», egli indica che occorre compiere uno «sforzo creativo» e «ripensare alla presenza dell’essere umano nel mondo». In questo frangente della storia, più che di tecnica e di economia, abbiamo bisogno soprattutto di nuove prospettive umanistiche. Perché se la terra ha sete di acqua, l’uomo ha sete di senso.

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