domenica 24 ottobre 2010
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Se c’è una spiegazione (non l’unica ma neppure l’ultima) che sta alla base dei continui fallimenti della diplomazia occidentale in Medio Oriente, questa è indubbiamente la pretesa di risolvere l’intricata questione in un’ottica esclusivamente politica. C’è il rischio che anche un evento straordinario come il Sinodo dei vescovi, che si conclude oggi in Vaticano, finisca con l’essere fagocitato dalla stessa logica, sbrigativamente ridotto a interpretazioni di parte, tanto malevole quanto interessate. Ben diverso il giudizio dei protagonisti dell’assemblea sinodale, definita «una novella Pentecoste» delle Chiese mediorientali, i cui pastori si sono riuniti per riflettere e condividere i problemi, le angosce, le attese e le speranze dei loro fedeli. Quella dei cristiani in Medio Oriente è una presenza minoritaria, sottoposta a ostracismi e intimidazioni, quasi sempre emarginata, spesso perseguitata. Una condizione che il Sinodo non ritiene essere una condanna bensì una chiamata alla «condivisione della Croce di Cristo». È questa intensa e commovente preoccupazione pastorale l’autentica chiave di lettura delle Proposizioni, vale a dire i suggerimenti offerti al Papa, come del messaggio finale indirizzato non solo ai sei milioni di cattolici mediorientali ma a tutto il popolo di Dio. È un testo che non fa sconti a nessuno, un documento che ribadisce la condanna dell’occupazione israeliana nei Territori palestinesi senza dimenticare «la sofferenza e l’insicurezza nelle quali vivono i cittadini d’Israele» e al tempo stesso rivolge un deciso invito ai musulmani perché rifiutino l’estremismo così da costruire insieme la società civile «sulla cittadinanza e sulla libertà religiosa». Ma il richiamo a non piegare la religione a scopi politici vale anche sul versante opposto, nei confronti di coloro che ricorrono alla Bibbia per giustificare delle ingiustizie (chiaro riferimento agli insediamenti ebraici nei Territori palestinesi). Qualcuno sarà tentato di leggere tutto questo come un nuovo e clamoroso manifesto politico, una sorta di "teologia della liberazione" applicata al Medio Oriente. In realtà i giudizi sul conflitto israelo-palestinese e sulla guerra in Iraq (definita «assassina») sono in linea con quelli espressi in varie occasioni dalla diplomazia vaticana. Certo, i toni del messaggio sono forti e appassionati, ma riflettono i sentimenti di tanti pastori che vivono sulla propria pelle contraddizioni e violenze che durano da tanti, troppi anni. C’è chi ha notato che «in Medio Oriente si parte sempre e inevitabilmente dall’analisi della situazione». L’assemblea dei padri sinodali non poteva sfuggire a questo. Ma non si è fermata al grido di denuncia. Non si è accontentata di analizzare la situazione. Ha parlato della vocazione, facendo emergere la domanda più radicale, quella che sta al fondo del cuore dell’uomo. Ha chiesto ai cristiani mediorientali di non cedere alla disperazione, ma di continuare ad impegnarsi nel lavoro di «purificazione della memoria e di promozione del linguaggio della pace e della speranza, invece di quello della paura e della violenza». Per fare questo è necessaria un’identità forte e al tempo stesso aperta, una coscienza che sappia distinguere il bene dal male, senza cadere nel fanatismo. Insomma, è più che mai necessaria la presenza dei cristiani. Chi ha a cuore le sorti del Medio Oriente non può far finta di niente. È una sfida che impegna tutti, a cominciare dai responsabili politici e dagli organismi internazionali, ai quali il Sinodo si è rivolto per fermare l’esodo continuo dei fedeli dalle terre dov’è nato il cristianesimo. Una sfida che riguarda in prima persona noi, cristiani d’Occidente, destati come d’improvviso a una nuova coscienza dai fratelli d’Oriente.
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