martedì 28 gennaio 2014
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Con il voto parlamentare di domenica, che ha approvato la nuova costituzione, la Tunisia non ha certo risolto tutti i suoi problemi politici, economici e sociali, né è finita la pericolosa polarizzazione politica che ha contrassegnato questi suoi travagliati tre anni dopo la cacciata di Ben Ali. Ma il risultato ottenuto è davvero notevole e lascia spazio alla speranza di far crescere una democrazia con radici meno fragili di quanto si sia soliti vedere nel Medio Oriente. Cosa ancora più importante, appare concreta la possibilità di tradurre le speranze nate con le primavere arabe in qualcosa di diverso dalla solita triste dicotomia: o regimi militari autoritari o governi islamisti dogmatici e intolleranti. La nuova carta è infatti il frutto di un compromesso difficile fra le forze secolari e il blocco islamista – che è stato al governo in questi ultimi anni – attorno alle questioni fondamentali del bilanciamento dei poteri, ma ancor più sul ruolo della legge islamica quale fonte di diritto e sulle libertà religiose, sociali e culturali. La determinazione di intellettuali liberali e dei partiti secolari ha premiato, evitando che la sharia divenisse fonte di diritto prioritaria o che venissero inserite limitazioni ai discorsi «offensivi verso l’islam», una formulazione ambigua che avrebbe di fatto soffocato la libertà di parola. Anche la formula raggiunta del semi-presidenzialismo è frutto di un paziente lavoro di accordo: da un lato, il partito islamista Ennahda preferiva enfatizzare il ruolo del primo ministro, dato che il partito appare forte soprattutto nelle elezioni parlamentari; dall’altro, il blocco liberale prediligeva un presidente forte, dato che punta a vincere le elezioni presidenziali con una candidatura autorevole e "di garanzia". E importanti sono anche gli articoli costituzionali che ribadiscono i diritti delle donne e delle minoranze.Ma il fatto più rilevante di questa approvazione è probabilmente la maturità dimostrata dai fronti contrapposti nel sapersi fermare in tempo, evitando quel muro contro muro che ha portato l’Egitto al disastro di oggi. È mancato poco, in realtà: lo scorso anno, anche la Tunisia sembrava avviata a una prova di forza che avrebbe cancellato con il sangue le illusioni della rivoluzione. Se ciò non è avvenuto, è perché le forze politiche hanno capito di rappresentare una delle società più moderate e secolarizzate del mondo arabo. Gli islamisti in particolare sembrano aver compreso di dover adattare la propria agenda politica alla realtà sociale del Paese. Il percorso verso le nuove elezioni – affidate a un governo tecnico super-partes – sembra così meno impervio, per quanto non manchino insidie. Soprattutto ora è più agevole anche per la comunità internazionale rafforzare il proprio sostegno, di cui vi è un disperato bisogno, soprattutto per rilanciare la disastrata economia e cercare di ridurre la disoccupazione.Qualcuno indica in quello tunisino il modello che altri Paesi arabi dovrebbero seguire. In realtà, come ben sappiamo, "l’esportazione" di formule per la democrazia finisce quasi sempre in modo disastroso. Anche perché la Tunisia ha peculiarità che non si trovano nella molto più chiusa e tribalizzata Libia ed è priva di quella pluralità identitaria e religiosa che sta frammentando la Siria, soprattutto a causa dello scontro fra sciiti e sunniti. Ma quanto invece il resto del mondo arabo può ricavare è una "lezione di metodo": imporre dogmaticamente la propria agenda e trasformare gli avversari in nemici privi di legittimità non porta mai a buoni frutti, a differenza della paziente, faticosa tessitura di un accordo di compromesso.
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