mercoledì 6 gennaio 2016
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L’anno s’è chiuso con una doppia notizia sulle «donne di conforto»: il Giappone chiede pubblicamente scusa alla Corea per avere ridotto migliaia di coreane al ruolo di «donne di conforto» durante l’occupazione terminata nel 1945, il Daesh stabilisce le norme che i suoi 'fedeli' devono seguire nel trattamento delle «schiave sessuali». Il primo pensiero, nell’imbattermi in queste notizie oggi, corre alla prima guerra che ho letto nel primo anno in cui si legge qualcosa: prima media, l’Iliade, la guerra di Troia. Età: dodici anni. A dodici anni lo studente Italiano, malamente sgrezzato dalle elementari, s’imbatte nella guerra corpo-a-corpo, lancia e scudo, la monarchia assoluta che più assoluta non si può, la schiavizzazione dei vinti, le donne come bottino, il potere dei militari sopra il potere dei sacerdoti. Valeva per la guerra di Troia, circa 1.250 anni prima di Cristo, valeva ancora per le guerre d’invasione giapponesi (ma anche per quelle naziste, e per quelle fasciste...), vale oggi per le guerre d’espansione del cosiddetto califfato. Daesh è uno Stato (si può definirlo un impero?) d’oggi, la fatwa che autorizza e regolamenta la riduzione a «schiave sessuali» delle donne dei popoli non-musulmani vinti è dell’anno appena finito, gli americani han trovato il documento e l’han pubblicato nei giorni scorsi. Nel 2015. La guerra di Troia si colloca sui dodici-tredici secoli avanti Cristo. Da allora a oggi fanno circa 3.300 anni in cui la riduzione delle donne dei popoli vinti a «schiave sessuali» non è cambiata in nulla. Il popolo vincitore si crede in diritto perché è il più forte. La pratica dei giapponesi di scegliersi delle «donne di conforto» nella Corea occupata è interamente spiegata in una foto d’archivio, tirata fuori nei giorni scorsi. È una foto di gruppo, un uomo e tre donne. Tutti e quattro sdraiati. L’uomo è il primo alla nostra sinistra, sta sorridendo, indossa l’uniforme giapponese, non capisco se è un soldato semplice o un ufficiale, non conosco i gradi giapponesi. Le donne sono tristi come la morte. La più triste è l’ultima alla nostra destra. È anche la più giovane. È incinta. La sua vita è segnata dall’essere schiava, e sarà segnata la vita di suo figlio. Dunque, la gioia dei vincitori crea dolore in più generazioni di vinti. Anche nelle guerre omeriche era così, in 3.300 anni non è cambiato nulla. Omero racconta proprio lo scontro tra due altissimi comandanti greci per due schiave. Agamennone aveva la sua, Achille la sua. All’inizio del poema tra i due scoppia un violento scontro, perché s’intromette la religione. La donna di Agamennone è figlia di un sacerdote che viene al Re dei Re dei Greci per riscattare la figlia, offre regali preziosi, supplica nel nome del suo dio, ma viene cacciato, insultato e minacciato. C’è in Omero tutto quello che si ripete sempre, in queste situazioni: le prigioniere-schiave sono un diritto di guerra, i padroni delle schiave non ascoltano i sacerdoti, vale solo il diritto dei più forti, i vincitori in guerra, che nell’Iliade sono i Greci, nell’invasione della Corea sono i Giapponesi, nei territori occupati dal Califfo sono gli jihadisti del Daesh. Chi chiede un po’ di umanità per le prigioniere rischia la vita. Non solo oggi con il Daesh, ma anche in Omero. «Vecchio – risponde Agamennone al sacerdote –, non far che presso a queste navi / né or né poscia più ti colga io mai, / ché forse nulla ti varrà lo scettro / né l’infula del dio», l’infula è la benda simbolo dell’ordine sacerdotale. E chiude: «Non m’irritar, se salvo ir brami». Minaccia di tagliargli il collo, pratica normalmente attuata oggi dal Daesh. È pericoloso metter fine ai soprusi. Gli eroi di Omero combattevano anche per procurarsi bottino e schiave. Così i giapponesi. Così i miliziani dell’Isis. Passano i secoli, passano i millenni, ma la guerra riesce ancor oggi a cavar fuori dall’uomo l’animale primitivo.
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