La «guerra facile» di Trump è difficile
sabato 3 marzo 2018

Sbaglia Donald Trump quando scrive su Twitter che «le guerre commerciali sono buone e facili da vincere». I dazi sull’acciaio e l’alluminio annunciati giovedì dal presidente americano rischiano di costare agli Stati Uniti svariati miliardi di dollari di maggiori costi industriali e decine di migliaia di posti di lavoro. Non sarà facile, questa guerra, e il presidente lo sa bene. Lo ha avvertito la quasi totalità degli analisti, glielo ha confermato la caduta delle Borse e, almeno secondo le cronache del dibattito che c’è stato nell’ufficio del presidente, è quanto gli hanno spiegato personalmente anche alcuni dei suoi collaboratori più stretti, come il consigliere economico Gary Cohn, il segretario al Tesoro Steve Mnuchin e Jerome Powell, governatore della Federal Reserve. Trump andrà avanti comunque.

A quanto pare i dazi che introdurrà la settimana prossima saranno indiscriminati, destinati cioè a essere applicati sull’acciaio e l’alluminio prodotti in qualsiasi Paese che non sia gli Stati Uniti d’America. Così facendo dichiara guerra commerciale a tutto il mondo. Anche se il suo vero obiettivo, e le 262 pagine del rapporto 'Effetti delle importazioni di acciaio sulla sicurezza nazionale' preparato dal dipartimento del Commercio lo dicono esplicitamente, è la Cina, colpevole da sola di più della metà dell’eccesso di produzione di acciaio a livello mondiale. Con un’elevata dose di semplicismo ed egoismo nazionale, Trump costringe il resto del mondo, e l’Europa su tutti, ad affrontare un problema reale: quello dei rapporti economici con Pechino.

La Cina è nello stesso tempo la seconda potenza economica mondiale e il più inaffidabile dei protagonisti del commercio internazionale. Non ammette concorrenza interna né fallimento delle sue aziende, non tutela il diritto di proprietà intellettuale, ignora i diritti dei lavoratori. Promette e non mantiene. Il caso dell’acciaio è esemplare: è dal 2009 che Pechino si è ripetutamente impegnata a ridurre la sua sovracapacità produttiva, eppure da allora la sua produzione di acciaio è passata da circa 750 a quasi 1.200 miliardi di tonnellate. Nonostante abbia riconosciuto che il problema esiste e si sia impegnata a risolverlo, la Repubblica Popolare non ha fatto nulla per concretizzare i suoi impegni.

Nel solo 2016 ha versato sussidi per quasi 10 miliardi di dollari per consentire alle acciaierie di restare aperte. È lo stesso atteggiamento che la Cina adotta in tutti gli altri ambiti economici. Come ha ammesso Cecilia Malmström, il commissario europeo al Commercio, dopo le grandi attese suscitate dal celebre discorso globalista di Xi Jinping al Forum di Davos del gennaio del 2017 da Pechino non è arrivato nessun segnale reale di maggiore apertura del mercato alle aziende straniere. Nel frattempo però il gruppo cinese Geely è entrato con una quota del 10% nell’azionariato di Daimler, uno dei simboli dell’industria tedesca ed europea. La Cina punta a un ruolo egemone nell’economia mondiale e lo fa senza nascondersi.

Vuole riuscirci e ha un piano organico: la faraonica 'Nuova via della seta', un progetto da 1.800 miliardi di dollari di infrastrutture in Asia, Europa e Africa, la metterebbe al centro degli scambi internazionali. E la strategia 'Made in China 2025', lanciata nel 2015, porterebbe la qualità della sua produzione industriale al livello di quella dei concorrenti occidentali. Il tutto ovviamente finanziato con massicci investimenti pubblici. L’ambizione di Pechino è legittima.

Altrettanto legittima è la preoccupazione del resto del mondo. Il libero scambio non è un principio assoluto. Il mercato porta benessere quando è regolato e paritario. Le democrazie di Europa e Stati Uniti non possono rassegnarsi all’idea che le loro aziende e i loro lavoratori subiscano senza protezione la concorrenza delle società sussidiate da una nazione autoritaria in cui non esistono sindacati. È ingiusto e dannoso ed è la causa più evidente della crisi di popolarità di una globalizzazione che ha impoverito la classe media occidentale a vantaggio di quella delle nazioni in via di sviluppo. Con un’irruenza senza diplomazia Trump prova a risolvere il problema da solo, chiamando gli Usa fuori da questa partita.

L’Europa, per sua natura portata al dialogo e alla conciliazione delle differenze, ha giustamente un approccio diverso. Nessuno più dell’Unione Europea è adatta a mediare nella guerra commerciale che sta scoppiando tra Washington e Pechino, con in mezzo il resto del mondo. Per avere successo, però, l’Unione deve prima avere un’idea chiara e positiva di globalizzazione. E il tasso di democrazia e di libertà nei Paesi interlocutori, in questo approccio, non dovrebbe essere solo un dettaglio.

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