La gran partita è con Pechino
venerdì 19 marzo 2021

La durezza inusitata con cui Joe Biden ha rivolto a Vladimir Putin – seppure rispondendo a una domanda tendenziosa dell’intervistatore della Abc – l’accusa di essere un «assassino» si presta a molteplici letture, ma non deve stupire. Nel marzo del 1983 Ronald Reagan definì l’Unione Sovietica The Evil Empire, «l’impero del male», allo stesso modo in cui quattro anni prima l’ayatollah Khomeini aveva bollato l’America come «Il Grande Satana».

Epiteti che nel teatro delle relazioni internazionali si sprecano, affidando poi alla diplomazia il compito di annacquare e stemperare i conflitti nascenti. Escludendo dunque l’ipotesi di una gaffe (l’esperto Biden peraltro non ne è immune) cerchiamo di comprendere il senso di questo attacco diretto alla Russia e al suo presidente. Torniamo alle prime mosse di Biden nel teatro mediorientale: alla semi-sconfessione del principe ereditario saudita, prodromo del fulmineo disfacimento della tela di alleanze e relazioni tessuta da Donald Trump, che vede ora la Casa Bianca impegnata a riallacciare i colloqui sul nucleare con Teheran, a rivedere il calendario del ritiro Usa da Afghanistan e Iraq, a ripristinare il dialogo con l’Autorità nazionale palestinese, conservando di quella stagione gli 'Accordi di Abramo' che hanno portato al riconoscimento di Israele e all’avvio di relazioni diplomatico-commerciali tra questi e un bel pezzo di mondo arabo.

A cosa è servito dunque quell’« I do' », inteso come 'Sì, lo penso', con cui Biden ha confermato di reputare Putin un killer? Certamente a tracciare una linea rossa che Mosca d’ora in poi non potrà più oltrepassare, se non a un prezzo molto salato, dopo due tornate di interferenze elettorali in America e dopo una vischiosa e velenosa campagna orchestrata dai russi e da Trump ai danni del figlio di Biden. Una linea rossa che marca il rispetto dei diritti umani (il caso Navalny è soltanto il più recente ed eclatante degli aspetti) e che si potrebbe riassumere nel seguente motto: trattare sempre, tollerare mai. Com’è accaduto rinnovando per 5 anni gli accordi Start in accordo con il Cremlino, ma al contempo promettendo a Putin ulteriori sanzioni per la brusca virata autoritaria degli ultimi mesi.

Al tempo stesso Biden – che forse ha alzato la voce con una accusa clamorosa anche per mettere un po’ in ombra certe contraddizioni domestiche (la sconfitta sul salario minimo, la pressione migratoria alla frontiera messicana) – sta ridisegnando i rapporti atlantici, ricoinvolgendo Europa e Nato che Trump aveva lasciato nel sottoscala, riesumando quella Containment Policy, la politica di contenimento attuata dalla Casa Bianca nei primi anni della Guerra fredda per arginare l’espansionismo sovietico.

Con una differenza, rispetto al passato: nella nuova geopolitica americana non è più Mosca la superpotenza rivale, ma la Cina. E infinitamente più importante dell’irritazione di Putin si è rivelato l’incontro che ieri si è svolto ad Anchorage in Alaska fra il segretario di Stato americano Anthony Blinken e il consigliere per la sicurezza Jake Sullivan e il ministro degli Esteri cinese Wang Yi accompagnato dall’alto membro del Politburo Yang Jiechi.

Un primo incontro interlocutorio, dove i motivi di frizione sono innumerevoli, dai diritti umani a Hong Kong, dalla persecuzione nei confronti degli Uiguri ai dazi, dalle dispute sulle aree d’influenza nel Mar Cinese Meridionale al 5G: temi di frizione non privi di rischi, ma che convalidano la consacrazione di Pechino a grande superpotenza con cui l’America è tenuta inevitabilmente a confrontarsi. Un nuovo Great Game nel quale l’Europa stessa è chiamata a scrollarsi di dosso debolezze e ambiguità, partecipandovi a pieno titolo. Questo chiede Biden al Vecchio Continente, e perché non s’illuda che quella fra la Casa Bianca e il 'killer' Putin sia solo una guerra di parole, cala sul piatto una richiesta (per ora non ufficialmente formulata ma già contemplata fra le possibili sanzioni) che la Germania non potrà rifiutare: sospendere la costruzione del gasdotto NordStream2 in concorso con la Russia.

Per quanto attuata da un presidente democratico, quella di Biden assomiglia molto a una riedizione degli anni reaganiani: anche qui c’è il proposito dichiarato di mettere all’angolo la Russia, che già Obama aveva umiliato relegandola a potenza regionale. Ora il bersaglio è Vladimir Putin, in crisi di popolarità e di prestigio, che si vorrebbe spingere a rapido congedo. Ma c’è un pericolo da non sottovalutare. Coloro che pensano a un dopo-Putin per la maggior parte risiedono a Pechino. E vorrebbero una Russia che indossa calzari asiatici e ha voltato definitivamente le spalle all’Europa, vista come terra da colonizzare.

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