lunedì 13 ottobre 2014
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​La gratuità più grande è quella che scende dal cielo ogni mattina insieme alla rugiada. Il mondo è immerso nella gratuità. È più vera e presente della cattiveria che pur non manca. Abita in mezzo a noi, la possiamo trovare negli alberi, dentro le nostre famiglie, nei cespugli, sotto i nostri capannoni e negli uffici, nei mercati, nelle piazze, negli ospedali, nelle scuole, in fondo al cuore della nostra gente. È qui, nello stupore della ferialità, dove c’è la gratuità che ci salva. L’attraversamento dei nostri deserti sarebbe molto più sopportabile se solo sapessimo riconoscere, con l’aiuto degli occhi dei profeti, la provvidenza che ci avvolge, ci può nutrire, ci nutre. Lasciato il deserto di Sur, il popolo dissetato riprende il cammino verso il Sinai, attraverso il deserto. E le prove continuano: «Tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine”» (Esodo 16,2-3). I popoli hanno sempre gridato nelle carestie di pane e d’acqua, e continuano a farlo. Sono queste le prime grida della vita, lo reimpariamo ogni giorno dai nostri bambini. Ma è ancora più vero che i Salmi, tutte le preghiere del mondo, ricorrono al vocabolario della fame e della sete per esprimere i sentimenti e le passioni più profonde dell’animo umano. Chi ha conosciuto la vera fame e la vera sete ha potuto raggiungere dimensioni della condizione umana che gli hanno donato, nella tragedia, parole più grandi che hanno arricchito il suo repertorio antropologico e spirituale. Sa parlare meglio dell’uomo sazio, sa pregare e cantare di più. È anche questo uno dei paradossi della terra: la sofferenza ci dischiude nuovi orizzonti dell’umano, ma non dobbiamo darci pace fino a quando tutte le sofferenze eliminabili non saranno cancellate dalle nostre società. Resteranno sempre quelle ineliminabili, per le quali ci manca oggi una cultura per trasformarle in canti e salmi, per trasformarne almeno qualcuna.
La sofferenza, la fame e la sete producono naturalmente le mormorazioni, che sono una delle ultime risorse dei poveri (le mormorazioni bibliche non sono le chiacchiere e il pettegolezzo, che invece sono sempre sbagliati). La gente che sta male si lamenta, rimpiange anche il peggior passato. Il dolore, soprattutto quello che si protrae nel tempo, ci fa dimenticare i doni ricevuti, il mare aperto, i miracoli più grandi, e trasforma in bene anche il ricordo della schiavitù. Ogni mormorazione nasconde un messaggio, anche quando è detto male per il molto dolore. Pessimo è allora quel responsabile che non vuole o che non sa ascoltare le mormorazioni del popolo che ha sete e fame di acqua, di pane, di lavoro, perché si priva di una delle principali fonti di verità sulla vita e sulle persone, non può fare scelte giuste a favore della vita, e così la manna non arriva sulle nostre carestie.
Mosè e Aronne stanno imparando nel deserto ad ascoltare il linguaggio del loro popolo, che parla con il tamburello e la danza delle donne, ma anche con quello delle mormorazioni di tutti. E YHWH è lì, in mezzo a loro, ad ascoltare le loro proteste e le loro nostalgie: «Il Signore disse a Mosè: “Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: ’Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane”’»(16,12). E così, «la sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: “Che cos’è?”, perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: “È il pane che il Signore vi ha dato in cibo”» (16,13-15). È normale che le quaglie si posassero e si posino in quel deserto durante le migrazioni stagionali, e il fenomeno della “manna” è una resina odorosa e dolce prodotta da due parassiti di una pianta (tamarix mammifera) nella zona centrale del Sinai. Provenendo dall’Egitto, il popolo non poteva conoscere la manna, e si chiede: “Che cos’è?”. E Mosè risponde: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo» (16,13-15). Senza gli occhi e le parole dei profeti i nostri “che cos’è?” restano senza risposte, o, più semplicemente, ne cerchiamo e ne troviamo altre a buon mercato, che ci lasciano affamati. I profeti ci donano risposte più vere e buone ai nostri “che cos’è” più profondi. Ci fanno sentire e capire che tutto ciò che accade attorno a me accade per me, che la manna non è soltanto la resina secreta dai parassiti. Lo stupore dell’esistere sta nel saper vedere la manna dentro la resina, l’infinito nella rugiada. Nello scoprire che la realtà è più grande dei nostri occhi, e anche di quelli dei profeti.
Nell’Esodo, insieme alla manna arriva anche un comando: «Ecco che cosa comanda il Signore: “Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne, un omer a testa, secondo il numero delle persone che sono con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda”. … Mosè disse loro: “Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino”» (16,16-19). Forse nel codice simbolico della cultura occidentale non c’è nulla che più della manna dice gratuità. Viene dal cielo, non è legata ad alcun nostro merito, e la ritroveremo nei vangeli quando la Gratuità fattasi carne divenne anche pane. Eppure, la manna arriva insieme alle regole, la gratuità (donum) insieme all’obbligo (munus). La gratuità senza regole di comunione e senza obblighi degenera nel gadget del supermercato, in un’esperienza tutta individuale e quindi piccola, inutile. La gratuità più importante è la gratuità del doveroso, perché è quella alla base delle nostre istituzioni, della politica, della famiglia, delle imprese, del patto sociale e fiscale, dei contratti di lavoro. La Bibbia sa che una gratuità non accompagnata da regole comunitarie e sociali non costruisce, ma distrugge il bene di ciascuno e di tutti.
La gestione del dono della manna segue infatti una precisa legge. Tutti hanno diritto alla stessa quantità di manna, che viene distribuita in base al numero di membri delle famiglie, quindi sulla base dei bisogni: «Colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo; colui che ne aveva preso di meno, non ne mancava. Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne» (16,18). Per il pane, per i beni primari dell’esistere, siamo e dobbiamo essere tutti uguali. Ed è la comunione che non fa imputridire la manna e il pane di ogni giorno. In quell’accampamento ci saranno stati alcuni più abili e altri meno a raccogliere la manna prima che arrivasse il sole a scioglierla; ma al momento del suo consumo i meriti, la forza, l’età, il rango sociale, non contano più. Mosè, Aronne, Miriam, il ragazzo Levi, il pastore Giuseppe e sua moglie Lea, hanno tutti la stessa porzione di manna, perché tutti esseri umani. Ci deve essere qualcosa che ci fa uguali prima delle tante differenze. Ci devono essere beni di cui possiamo godere anche se non possiamo comprarli – ieri nel deserto verso il Sinai, oggi nei deserti del capitalismo finanziario. La manna è simbolo di questo tipo di bene primario, che sfama ciascuno solo se sfama tutti. Tutte le volte che qualcuno muore perché non ha potere d’acquisto per procurarsi il pane e gli altri beni primari dell’esistenza, stiamo rinnegando la legge fondamentale della manna. Molti hanno sognato una società dove ogni essere umano potesse godere di beni non in quanto consumatore e cliente ma perché essere umano: quando la realizzeremo? Non ci manca il pane, ci manca solo, e sempre di più, il rispetto della legge della manna.La manna, poi, non può essere accumulata, e quindi non può diventare oggetto di commercio: «Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì» (16,20). Il pane fresco è solo il pane quotidiano. La gratuità-manna vive, non muore e non svanisce al sole, solo se resta gratuità. La manna nutre se accolta come dono e non trasformata in merce. La legge della manna ci ricorda che non tutti i beni sono beni economici, e che i beni economici non diventano “mali” solo se altri beni restano non economici.
Molti beni sono anche merci, ed è bene che lo siano. Ci sono però beni che smettono di essere beni (cose buone) se diventano merci. L’amicizia non è un business, la preghiera non è magia, una persona non è una risorsa umana, se e fino a quando restano faccende di gratuità. E la manna-gratuità ha la sua legge intrinseca e fortissima: non si lascia usare a scopo di lucro, e imputridisce nelle mani di chi vorrebbe abusarne. È così che si è salvata anche sotto i peggiori imperi, che resiste in tutti i luoghi dell’umano, che continua a sfamare i poveri della terra: «Gli Israeliti mangiarono la manna per quarant’anni, fino al loro arrivo in una terra abitata: mangiarono la manna finché non furono arrivati ai confini della terra di Canaan» (16,35).
 
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