La forza gentile della cura
sabato 25 luglio 2020

Non si sono guadagnati la visibilità di altri provvedimenti tra gli innumerevoli che con il via libera del Senato hanno ora guadagnato il rango di legge, dunque vigenti e cogenti. Ma i punti dell’ormai ex Decreto Rilancio con cui si istituisce la Scuola di specialità in cure palliative e viene stabilita l’assunzione di 9.600 infermieri «di comunità» o «di famiglia» sono destinati a lasciare un segno assai più profondo di tanti altri capitoli ben più reclamizzati. Si tratta infatti di due progetti ambiziosi, lungamente immaginati e da gran tempo attesi, che tra loro hanno un legame profondo: mentre la rete infermieristica destinata a presidiare il territorio ha per compito l’individuazione tempestiva delle situazioni di grave disagio in modo da evitare che degenerino creando situazioni estreme e disperate, la formazione di medici specialisti nelle cure palliative è destinata a mettere nel circolo sanguigno della nostra sanità professionisti in grado di farsi accanto ai pazienti gravati dalle situazioni più critiche, e in particolare nel tratto finale della loro vita, con mirate competenze cliniche, assistenziali e umane. La migliore prevenzione che si conosca alla richiesta di farla finita col suicidio assistito o l’eutanasia.

Gli uni e gli altri si propongono come figure ormai indispensabili per un Sistema sanitario che - crisi pandemiche a parte - deve attrezzarsi a gestire una società che invecchia a gran velocità e vede crescere le patologie di lungo corso, spesso in combinazione tra loro, oltre ai casi di degenerazione neurologica progressiva che aprono percorsi di vita molto sofferti e impegnativi in termini di assistenza. C’è un popolo di malati cronici con decorso lunghissimo che propone alla sanità le domande tipiche di una società come la nostra, che proprio mentre garantisce l’allungamento della vita in condizioni anche molto precarie grazie al progredire della medicina tecnologizzata e dei farmaci sembra sottrarre senso a questa esperienza di vita condivisa con la limitazione fisica, quasi trasformando l’aggiunta di anni insperati in una condanna senza motivo.

Una sanità che cura pezzi di corpo con una crescente specializzazione dimentica progressivamente l’uomo tutto intero. Punta le sue carte sul superamento di frontiere ritenute inaccessibili con il conseguimento di risultati mirabolanti, mentre perde per strada il motivo di questa corsa all’eccellenza tecnica. È la deriva autoreferenziale di una medicina tentata di vivere la malattia inguaribile come una sconfitta, la sofferenza come un enigma che non sa più decifrare, e la morte come un’insostenibile resa.

Ha molte formule e poche parole, tempo per praticare terapie ma non per spendersi in un dialogo da cuore a cuore. Dentro una simile narrazione il paziente si avverte come un campo di battaglia dove si sfidano all’ultimo sangue eserciti che gli restano estranei. Il suo corpo diventa un oggetto biologico guasto da aggiustare, che se resta difettato sembra consegnare il titolare al destino dei fallimenti: l’abbandono, la solitudine, lo scarto. A che serve allora vivere se non posso guarire?

È la dimensione umana della cura ad aver fatto più pesantemente le spese di questo concetto aggressivo della sanità, che persegue doverosamente risultati di crescente efficacia ma rischiano derive idolatriche rispetto alla loro stessa formidabile – e fallibile – capacità di risolvere l’angosciosa domanda di salute di un uomo sempre più dubbioso di sé e a corto di motivi per tenersi stretto il proprio futuro. Per riportare gravità umana nella turbo-medicina non si può certo invocare una decrescita del progresso terapeutico. Il contrappeso necessario dev’essere allora sul piano di una presenza più immediatamente fraterna che strettamente clinica, il sorriso e l’ascolto dentro un camice bianco che torna compagno di viaggio. Chi sceglie il letto o la sedia a rotelle come punto di vista trasmette la sua scienza al paziente attraverso una capacità relazionale maturata almeno quanto quella clinica. Questo cambio di paradigma è reso possibile anche dall’irrompere sulla scena di figure professionali nuove per curriculum formativo o collocazione dentro la realtà, in un tessuto di rapporti che forza l’isolamento ospedaliero per restituire il medico e l’infermiera alla gente, là dove – e come – ha davvero bisogno.

Con gli specialisti in cure palliative, che verranno formati dalle nostre università a partire dal 2021 (più che una legge, ora è un impegno da onorare), sommati agli infermieri di comunità, si può rivoluzionare la tecnomedicina grazie all’impatto di una risorsa insuperabile: la persona umana, con la sua alchimia di domande, dolore, sguardi, speranze, relazioni. Una formula che non conosce mai vere sconfitte.

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