venerdì 16 settembre 2016
Ci entusiasmiamo per le vittorie dei nostri atleti paralimpici a Rio. Ma l'handicap si vive anche nella quotidianità, fatta anche di barriere architettoniche, solitudine e indifferenza. Da combattere insieme. Massimiliano Castellani
Gli ori azzurri e la difficile vita dei disabili
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Il 14 settembre 2016, d’ora in avanti, dovrebbe essere inserito nel nostro calendario come il “giorno di grazia” dello sport italiano. La beatificazione degli atleti paralimpici azzurri: quelli che hanno vinto l’oro, cinque, quelli che sono saliti sul podio, otto, ma anche di quelli che non ce l’hanno fatta e magari non ce la faranno mai, e che però restano comunque esseri speciali, di cui fidarsi ad occhi chiusi. La loro specialità non sta nella disciplina che praticano e che li ha portati fino alle Paralimpiadi di Rio. L’essere “speciale” sta nel saper affrontare la vita con la consapevolezza che i propri limiti e le residue facoltà fisiche di cui dispone l’atleta paralimpico sono un patrimonio a disposizione della società, tutta. “Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa”, ha raccontato spesso Alex Zanardi dopo l’incidente che gli capitò nella sua “prima vita” di pilota. Ogni atleta è passato per un tragico campo minato in cui ciò che non l’ha ucciso l’ha reso più forte. Per ognuno di loro c’è stato “un primo e un secondo tempo”, così come Bebe Vio vede la sua esistenza “prima e dopo la meningite”. La specialità non sta solo nel saper lenire e combattere il male fisico quotidiano, la paura e l’incapacità di superare gli ostacoli e quelle barriere che la società gli (ci) piazza davanti incivilmente, ma nella capacità di ricostruirsi e di ridare un senso al proprio viaggio. Speciale è colui che sa ancora approdare, con fatica e con coraggio, in un’oasi, uno spazio anche minimo di normalità. E quello che per gli atleti diventa la pedana di una palestra, una pista d’atletica o la piscina dell’ultimo paese di provincia in cui un sindaco illuminato ha capito che è bello investire nello sport olimpico, ma che è straordinario credere e incentivare quello paralimpico.  Esistono ancora realtà, specie nelle aree metropolitane, in cui le barriere architettoniche restano montagne invalicabili e non solo per i disabili, ma anche per i bambini e gli anziani. Quando il presidente del Comitato paralimpico italiano, Luca Pancalli, parla di “quel pezzo di welfare che può produrre lo sport paralimpico”, non lancia uno slogan politico e nemmeno una strizzatina d’occhio ai Giochi olimpici e paralimpici di Roma 2024, ma un invito a credere in quella che, a Rio, anche il premier Matteo Renzi ha chiamato la “squadra Paese”. Uno dei fini nobili della politica è proprio far sentire i suoi cittadini tutti di serie A, tutti appartenenti allo stesso collettivo. Lo sport da parte sua ci mette le facce degli atleti, regala storie edificanti ed esemplari come quelle che stiamo raccontando e apprendendo dalle Paralimpiadi di Rio. Dietro ogni singola impresa sportiva c’è un piccolo grande riscatto, un successo ottenuto prima di tutto contro l’indifferenza e la solitudine che sono le due peggiori avversarie – purtroppo ancora forti – dell’inclusione sociale e della piena integrazione delle persone con una diversa abilità. Uomini e donne, ragazzi e ragazze che si sono rimessi in gioco, hanno accettato la sfida e chiedono soltanto di essere seguiti, di ricevere il nostro tifo, il nostro calore umano. E se possibile non solo ogni quattro anni, ma ogni giorno, specie in quelli bui in cui la malattia e il male di vivere si ripresentano e chiedono indietro le medaglie vinte e i momenti di gloria vissuti.  “Alla fine lo sport, tutto lo sport, è questo. Guardare qualcuno che ottiene un grande risultato significa entrare nel percorso che l’ha portato ogni giorno a mettersi in gioco e fare il meglio che poteva”, ha detto ancora Alex Zanardi, che dal giorno in cui è salito sulla sua bici e ha cominciato la nuova avventura nell’handbike si è fatto portatore sano del “desiderio”.  La spinta per andare al passo con gli altri, e non necessariamente andare più forte. Nel guardare il sorriso e gli occhi scintillanti di ognuno dei nostri medagliati non c’è solo l’ammirazione verso il campione, ma la condivisione per un percorso di cui ci dobbiamo sentire sempre più partecipi. Nel vedere il loro “desiderio” realizzato ci scappa anche una lacrima di gioia, specie quando la piccola grande Bebe Vio ci manda a dire che “lo sport è terapia. Rimani quello che sei e segui la strada buona”.
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