giovedì 11 novembre 2010
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Riuscirà il vertice del G20 di Seul a placare la guerra sui cambi? Una contesa che sta anche aggravando i rischi di implosione dell’Unione monetaria europea; non un tema solo per barracuda esperti, dunque. Sono state affacciate varie proposte, alcune anche piuttosto vestute, come quella di tornare al sisterma aureo, o almeno ad un tallone aureo. Negli Anni Cinquanta ne aveva fatto un cavallo di battaglia il Presidente francese Charles De Gaulle su suggerimento del suo consigliere economico Jacques Rueff, secondo cui il tallone aureo avrebbe costretto gli Usa a rimettere la propria casa in ordine, a consumare di meno, risparmiare di più e a non turbare i mercati internazionali. Altre proposte riguardano poi l’ancoraggio ad un paniere di commodity, dalle derrate alimentari al petrolio. Altre ancora mirano a dare nuova vita ai meccanismi detti di "Bretton Woods" (definiti nel 1944 nella cittadina del New Hampshire) che si basavano su una convertibilità a tasso fisso tra dollaro Usa e oro, a fluttuazioni delle altre monete entro una fascia molto stretta e a svalutazioni e rivalutazioni gestite collegialmente dal Fondo monetario internazionale.La critica maggiore rispetto alle proposte di De Gaulle-Rueff è quella fatta, all’epoca, dall’economista belga-americano Robert Triffin:la produzione d’oro (o di altri beni) non può stare al passo con le esigenze di liquidità di un mondo che cresce: la prova storica è data dal fatto che a fine Settecento (all’inizio cioè dell’industrializzazione), la zecca di Hall in Tirolo (che coniava monete per tutto il centro-Europa) venne chiusa e si passò a valute cartacee – non più collegate all’oro, o all’argento o alle derrate – essenziali perché l’Europa avesse la liquidità per diventare per due secoli il cuore del mondo in termini di tecnologia , reddito, consumi e investimenti.D’altro canto, oggi mancano le condizioni storiche per tornare ai meccanismi di Bretton Woods – creati da un club di 44 Stati omogenei e rappresentativi dell’"area Atlantica" – perché ora meno di un terzo degli Stati membri del Fmi, hanno regimi di cambio "con un aggancio duro" (in gergo hard peg) ad una delle maggiori monete del commercio e della finanza mondiale (dollaro Usa, euro, yen). Per gran parte del mondo, uso a tassi di cambio in vario modo fluttuanti (con i benefici e i costi che essi comportano), avere un hard peg comporrebbe una transazione gravosa. Lo si tocca con mano nell’area dell’euro: nei dieci anni dalla creazione della moneta unica sono aumentati i disavanzi delle bilance dei pagamenti di alcuni Paesi (Irlanda, Portogallo, Spagna e in misura minore Italia) con altri Paesi dell’area (Germania, Francia); è cresciuto a dismisura il credito totale interno nei Paesi in deficit, con il risultato di un’inflazione nascosta ma maggiore della media della zona e fibrillazioni sui titoli di Stato (uno specchio fedele dei cambi).Come rimettere ordine, allora? Occorre partire da una premessa: la danza delle monete rispecchia l’economia reale. Per due decenni, le tre principali aree geopolitiche sono state la prima una cicala (negli Usa il tasso di risparmio delle famiglie è stato sottozero nel 2006 e nel 2007), la seconda una formica (i Paesi dell’Asia e dell’America Latina la cui crescita è il risultato di alta produttività e di tassi elevati di risparmio) e la terza una bella addormentata (l’Europa rasoterra ma dove si assapora la dolcezza del vivere). Nella "bella addormentata", poi, o produttività e competitività (e inflazione implicita) convergeranno verso gli standard più elevati interni al continente oppure l’euro finirà per implodere. Questi sono i nodi che le singole aree economiche devono affrontare.
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