domenica 1 maggio 2016
Gli interessi economici dietro lo scontro tribale. ​Chi vuole la spaccatura. Solo Roma per un governo unitario. (Giorgio Ferrari)
Libia, così il petrolio ostacola la riunificazione
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Bruciano le bandiere italiane a Derna nel corso di una manifestazione contro i continui raid aerei da parte del Libyan National Army (Lna) guidato da Khalifa Haftar, mentre cresce la tensione fra Tripoli e Tobruk attorno al ruolo delle forze armate con una paradossale inversione di ruoli: il governo di unità nazionale frena l’offensiva contro il Daesh pur di non consentire a quello di Tobruk di intestarsi la vittoria. Il caos libico ha mille volti e cento diverse ragioni: politiche, territoriali, tribali, militari, economiche. Alcuni indizi tuttavia ci aiutano a capire meglio gli appetiti che si muovono attorno alla Libia e soprattutto al mare di petrolio su cui galleggia quella che Gaetano Salvemini (in polemica con la spedizione voluta nel 1911 dal governo Giolitti) definì «uno scatolone di sabbia».Il primo è quello di una petroliera, la 'Distya Ameya', battente bandiera indiana. A bordo stavano alloggiati 650 mila barili di greggio per conto del gruppo Dsa Consultancy Fzc, società registrata negli Emirati Arabi Uniti. Piccolo particolare: la petroliera era partita da Tobruk in direzione di Malta ma senza il via libera della Noc, la National Oil Company libica con sede a Tripoli, unico rivenditore legittimo del petrolio libico internazionalmente riconosciuto. In altre parole, il governo di Tobruk – che non riconosce l’esecutivo di unità nazionale di Fayez al-Sarraj insediatosi nella capitale – stava realizzando il primo tentativo commerciale di secessione della Cirenaica. Risultato: respinta dai maltesi dopo che l’Onu su richiesta dell’ambasciatore libico Ibrahim Dabbash l’aveva rapidamente inserita nella lista delle compagnie soggette a sanzioni internazionali, la Distya Ameya è tornata in Libia, attraccando al porto di Zawia, gestito dalle autorità di Tripoli. Ma il contenzioso sull’esportazione di greggio libico fra i due Noc, quello di Tripoli e quello di Tobruk è tutt’altro che risolto.Il secondo indizio, esile quanto si vuole e in parte dovuto alla debolezza del dollaro, sta nella quotazione del Brent, che venerdì scorso a New York si è avvicinato ai 50 dollari, toccando i massimi da sei mesi a questa parte. Un fuoco di paglia, secondo molti – la stessa Eni nella trimestrale pubblicata due giorni fa non si fa illusioni su un rialzo del greggio a lungo termine. Tuttavia quella quotazione in rialzo, siamo giusto a mezza strada dai tempi d’oro in cui l’oro nero veleggiava attorno ai 100 dollari, è (o per lo meno sembra) lo specchio di una realtà inconfutabile: nel 2015 la domanda mondiale di greggio è cresciuta di circa 1,3 milioni di barili e gli analisti stimano che il trend proseguirà inalterato fino al 2018, quando il consumo mondiale si attesterà poco sotto i 96 milioni di barili al giorno. Ma forse saranno ancora di più: nella tutt’altro che occulta guerra per l’energia, l’Arabia Saudita – che mal digerisce il ritorno sui mercati dell’Iran (in aprile Teheran ha ripreso a esportare 1,9 milioni di barili al giorno) – minaccia di aumentare la produzione giornaliera di altri 500 mila barili giornalieri destinati all’assetato mercato cinese, portando così a 11 milioni la propria produzione-monstre.Non stupiamoci troppo, perché questa è una guerra che non fa prigionieri; basta osservare l’effetto sulle economie dei grandi Paesi esportatori: nel 2016 l’Arabia Saudita – capofila delle petromonarchie del Golfo cui si deve il tracollo dei prezzi per i mancati tagli alla produzione – crescerà soltanto dell’1,2% contro il 3,4% del 2015 e complessivamente Riad ed Emirati nel 2015 hanno collezionato minori ricavi per 390 miliardi di dollari e secondo stime del Fondo Monetario Internazionale il deficit arriverà tranquillamente a 500 miliardi nel 2016. Troppo petrolio, dicono tutti, un diluvio e con prezzi troppo bassi. Eppure molti occhi guardano con comprensibile cupidigia allo 'scatolone di sabbia libico', un territorio che nasconde 48 miliardi di barili di riserve confermate (le più generose di tutta l’Africa – il 38% – visto che la stessa Nigeria ne vanta solo 37 miliardi), l’80% delle quali si trovano nel bacino della Sirte, che vanno a soddisfare l’11% del fabbisogno europeo. Stiamo parlando di petrolio light, cioè a bassa densità e bassa viscosità, facilmente trasportabile via oleodotto, ma anche sweet, povero di zolfo. Un greggio insomma che consente la produzione di carburante a prezzi sorprendentemente bassi.Ma se le riserve libiche sono quasi infinite, la produzione viceversa langue: fino al 2011, l’anno in cui cadde il regime di Muhammar Gheddafi, Tripoli produceva 1,6 milioni di barili al giorno, precipitati ai giorni nostri a meno di un quarto (360 mila barili a giorno, dato di febbraio). Un bottino stimato attorno ai 130 miliardi di dollari se solo si tornasse alla produzione pre-rivoluzione. Non c’è da meravigliarsi dunque se il Daesh si spinge verso i terminali petroliferi della costa, se il generale Haftar – ex gheddafiano di ferro, ex protégé della Cia, ora armato e sostenuto dall’Egitto – muove anch’esso verso Sirte, se i jihadisti finanziati da Riad assediano il terminal di Ras Lanuf, se sia Tobruk sia il Califfato provano a vendere petrolio in proprio? Un punto va chiarito: gli appetiti petroliferi in sé non costituiscono un reato né un attentato alla morale. Finalità prima di una compagnia petrolifera è il profitto e la ricerca di sempre nuove sorgenti di materie prime. Inutile quindi vagheggiare una mappa che distingua i presunti buoni dai cattivi, l’Eni dalla Total, la Royal Dutch Shell dalla Exxon Mobil, la Repsol da Gazprom. Buoni e cattivi semmai stanno dietro le quinte: Turchia e Qatar dalla parte di Tripoli, Egitto e Arabia Saudita con la Cirenaica e il governo di Tobruk. Ma anche, Francia, Gran Bretagna e Italia: in un ipotetico progetto di spartizione di aree di influenza Londra prenderebbe in carico la Cirenaica, Parigi il Sahel nel Fezzan e Roma la Tripolitania. In mezzo c’è un governo di unità nazionale asserragliato nel ridotto dell’area portuale di Abu Sittah la cui presa sul Paese è limitatissima, per non dire nulla. Non per niente Sarraj ha chiesto all’Onu un intervento nel Paese «per mettere in sicurezza i terminal petroliferi ». Dice l’Alto rappresentante Ue Mogherini: «La Libia ha un futuro se il suo popolo riuscirà a unire le forze attorno a istituzioni comuni e una volta ripartita non avrà bisogno di aiuti economici».Ma si vogliono davvero istituzioni comuni? L’Italia è forse l’unico ad appoggiare e favorire un governo unitario che ridia alla Libia – fino a pochi anni il più avanzato fra gli Stati africani nell’indice Onu dello sviluppo umano – la possibilità di uscire da una guerra civile impossibile da vincere per qualunque fazione, restituendo una nazione virtualmente fallita come lo è la Somalia al consorzio delle nazioni civili. Ma la visione italiana sembra avere scarso appeal. All’Egitto conviene una Libia divisa, che consentirebbe al Cairo di fare della Cirenaica un vero e proprio protettorato dopo che Haftar avrà liberato la costa dalla presenza del Daesh, strategia cara all’Arabia Saudita che condivide con l’Egitto la lotta ai Fratelli musulmani, così come una Tripolitania a guida islamista e separata dal resto della Libia è nei piani di Turchia e Qatar. Difficile pensare all’ex colonia italiana come a un Paese in cerca di unità nazionale. O meglio, la questione dell’assetto istituzionale viene dopo quei maldissimulati appetiti energetici: prima ci si spartisce la ricca torta petrolifera, poi si vedrà.
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