giovedì 23 agosto 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Caro direttore,
le scrivo per ringraziarla della pubblicazione della mia lettera del 13 luglio scorso, e della sua bella risposta. A proposito della quale, vorrei fare delle puntualizzazioni, dovute a sue calzanti osservazioni e argomenti. 1) Nella mia lettera non avevo scritto che «gli italiani “non amano fare la guerra”», ma che «non sanno farla»: che per me è (comunque, fattualmente) un merito, sia pure involontario. 2) Lei ha evidenziato una mia “omissione” – coperta da un “ecc.” – sulle forze armate e di sicurezza interne. In effetti, ho pensato anzitutto a corpi dedicati alla difesa dell’ambiente e di persone (ma anche degli animali), come appunto quello Forestale o dei Vigili del fuoco; ma con questo non voglio trascurare necessariamente Carabinieri e Polizia. Che andrebbero magari controllati più “razionalmente” (ma da chi?) per impedire, con un eufemismo, almeno eccessi tipo “Diaz”. Inoltre, di corpi armati interni ne basterebbero meno, anche per un’ormai storica questione di coesistenza di forze concorrenti. E bisognerebbe riflettere sulla costituzionalità del loro impiego, assieme all’esercito, come forze di occupazione di altri Paesi (di qualunque tipo sia la qualificazione conferita a questo impiego: per fini umanitari, di ricostruzione, addirittura per assicurare la pace…, ma in realtà per motivi utilitaristici, di sfruttamento di risorse o di mantenimento di posizioni strategiche). 3) Quanto agli F35, lei li considera «costosissimi», ma non «inutili»: che, immediatamente, mi appare in parte contraddittorio. Ma conclude – ed è questo che conta – augurandosi sostanzialmente la «costruzione di una condizione stabile di sicurezza e, infine, del progressivo radicamento di una coinvolgente cultura di non–violenza e di pace»: e in questo si dimostra vicino ai più grandi pacifisti che conosciamo, dal Kant della concezione della pace perpetua, a Einstein, Russell, Gandhi, fino a Carlo Cassola (della cui Lega per il disarmo unilaterale ho fatto parte). 4) Infine – come lei ha notato, con insolita sensibilità e vera professionalità (di cui, ugualmente, nel mio piccolo la ringrazio) – mi sto dedicando, per quanto possibile, ad applicare alla crisi economica la teoria del disarmo unilaterale del grande scrittore Carlo Cassola. Per questo vorrei che si approfondisse – magari anche a livello parlamentare – il dibattito su un tema, quello dell’abolizione dell’esercito italiano, che sarebbe realisticamente attuabile. Si tratta di un radicale cambiamento culturale: certo difficile, ma non impossibile da progettare. La saluto molto cordialmente.
Gianni Bernardini, Università di Siena
 
Grazie delle sue belle espressioni, caro professor Bernardini. Non condivido tutte le sue valutazioni, ma apprezzo lo stile con cui condivide (e spiega) la battaglia culturale per il disarmo unilaterale. E il modo con il quale ha articolato anche stavolta le sue interessanti puntualizzazioni. Ho scritto in diverse occasioni – e, credo, sufficientemente argomentato, facendomi carico anche delle inevitabili contraddizioni che tutti sperimentiamo – ciò che penso sul gran tema della «cultura della pace» e su piccole e meno piccole questioni collegate: a cominciare dal nodo della «sicurezza» nella libertà e nella giustizia – e, dunque, nel rispetto del diritto naturale delle genti e della legalità che ne consegue – per finire al caso degli F35. Ho ragionato in più occasioni (e anche nella risposta che le avevo dato il 13 luglio scorso) sulla gradualità e sul “concerto” che lungo questa via, a mio parere, vanno perseguiti con intelligente e generosa dedizione. E non è un mistero (anche se qualcuno mostra di non accorgersene) che da diversi mesi, assieme ai miei colleghi e agli studiosi ed economisti che collaborano con noi, propongo, dati e fatti alla mano, una lettura della «grande crisi» economica e sociale che stiamo vivendo come «grande guerra», non meno feroce di altri eventi bellici. Perciò, non mi ripeto. Vorrei solo dirle che non so se posso essere definito «vicino ai più grandi pacifisti» (dalle visioni e dalla testimonianza dei quali mi sono sempre fatto provocare). A me soprattutto preme di essere un cristiano «vicino» al Vangelo di Gesù e, da cronista, di avere occhi capaci di leggere e parole capaci di descrivere nel modo più accurato e acuto le splendide e dolenti vicende dell’umanità e di questo pianeta che ci è affidato. Il creato, la nostra casa comune, e le nostre comunità umane sono segnate da molti e diversi gesti di guerra, ma anche – grazie a Dio e agli uomini e alle donne di buona volontà – da esperienze di accoglienza, di solidarietà e di sviluppo. Cerco, per quanto so e posso, di darne compiutamente notizia assieme ai miei colleghi. E così, tutti insieme, cerchiamo anche di contribuire a una più vasta consapevolezza del bene e del male che provochiamo, che accadono e che ci interpellano. So infatti che questa consapevolezza – che è ricerca della verità e adesione a essa – ci cambia e cambia il mondo. Poco a poco, ma inesorabilmente. Un saluto anche a lei.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI