venerdì 15 maggio 2015
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Funzionari, politici, affaristi di sempre di più alto rilievo indagati, incriminati, condannati... La lotta alla corruzione – cavallo di battaglia del presidente Xi Jinping – sembra proseguire con successo. Quali sono le ragioni di questo impegno e quali i suoi limiti, in un paese dove pressoché ogni evento politico, sociale, economico è subordinato alle logiche di partito o alla sua persistenza alla guida? La signora Zhang (nome fittizio assegnatole dalle autorità cinesi) è stata il primo cinese a essere estradato dall’Europa, accusata di frode per avere sottratto 224mila dollari a una società finanziaria. In Italia da oltre nove anni, è stata rimpatriata il 3 febbraio come parte dell’operazione Fox Hunt (Caccia alla volpe), nome in codice dell’iniziativa globale per contrastare la fuga all’estero di funzionari infedeli e riportare in patria le somme di denaro esportate illegalmente. Equivarrebbero a cinque miliardi di dollari quelle finora recuperate. Briciole, se sono vere le stime delle autorità anti-corruzione cinesi che nel 2012 segnalavano in oltre 1.000 miliardi di dollari l’emorragia di capitali esportati senza diritto ma con un impatto significativo su economie locali, come quelle di Londra o Los Angeles. Una "caccia" difficile, dato che i maggiori paesi di destinazione dei fuggiaschi sono quelli - come Australia, Canada e Stati Uniti - con i quali la Repubblica popolare cinese non ha accordi di estradizione. Tuttavia, sono ufficialmente 700, di cui 40 funzionari governativi, i cinesi riparati all’estero con denaro acquisito indebitamente finora costretti al rientro. Come avverte Shen Dingli, vice-rettore dell’Istituto per gli Affari internazionali dell’Università Fudan. I paesi che ospitano individui ricercati «sono preoccupati che accuse per reati economici siano utilizzate per liberarsi di oppositori politici». Il "fronte esterno" della lotta alla corruzione, tuttavia - in questo caso segnato anche dall’abitudine consolidata di tanti ai livelli intermedi e elevati del partito di inviare congiunti all’estero per studio in modo di potere acquisire nel tempo dritto di residenza e godersi fortune laggiù accumulate - è un’eco dell’impegno che all’interno sta acquistando dimensioni epiche. Da quando Xi Jinping è entrato in carica come segretario generale del Partito comunista cinese nel novembre 2012 (dal marzo 2013 è anche presidente della Repubblica), la Commissione centrale per le Ispezioni disciplinari del partito ha sanzionato un numero enorme di funzionari: 182mila solo lo scorso anno, il 13 per cento in più che nel 2012. Tra questi una trentina di personalità di alto livello. Incapaci di sostenere pressione e vergogna, ma anche come atto per salvaguardare benefici economici e dignità della famiglia, una settantina si sono suicidati. Drammi personali che si inseriscono in uno psicodramma collettivo di cui però il copione resta in parte ignoto. Sembra infranta, ad esempio, l’intoccabilità dei membri o ex membri dei massimi livelli del partito. Lo stesso Xi ha approvato l’arresto dell’ex capo della sicurezza Zhuo Yongkan il 9 febbraio, mentre il suo socio in affari petroliferi, Liu Han è stato giustiziato perché accusato di omicidio plurimo. Zhou è finora il personaggio di maggiore spicco a finire in disgrazia, ma la campagna non risparmia nessuno. Non il potente apparato militare, dato che Xu Caihou, ex vice-presidente della Commissione militare centrale e membro del Politburo del partito, è sotto processo per avere accumulato una fortuna in mazzette chieste in cambio di promozioni. Non la finanza, con l’arresto del presidente della Banca Minsheng e l’avvio di indagini a carico di un esponente del consiglio di amministrazione della Banca di Pechino. Non i servizi segreti, come dimostrato dall’incarcerazione a gennaio di Ma Jan, vice-responsabile del ministero per la Sicurezza nazionale. La Commissione centrale per le Ispezioni disciplinari - di cui molti cominciano a criticare lo strapotere - sta anche indagando i vertici degli organismi sportivi nazionali, della cinematografia e delle televisioni. Non è un segreto nel paese che il Partito comunista cinese, 87 milioni di tesserati, accolga una corruzione fuori scala che ne mina la legittimità. Di conseguenza, la messa sotto accusa o le condanne verso presunti "intoccabili" rappresenterebbero un segnale di cambiamento per la popolazione vittima di indifferenza, estorsioni, soprusi, espropri nel nome del socialismo. Non a caso, segnalano i media cinesi, in tempi recenti i funzionari pubblici evitano di frequentare ristoranti costosi o mostrare segni esteriori del loro potere e benessere. Dato che solo il valore di contanti e beni sequestrati a Zhou Yongkan e alla sua famiglia equivarrebbe a 14 miliardi di dollari, la stima del costo per il paese della campagna anti-corruzione di almeno 100 miliardi di dollari l’anno (circa l’1 per cento della ricchezza prodotta) sarebbe onerosa - ancor più dato il rallentamento economico - ma motivata. Secondo diversi osservatori, l’iniziativa del presidente/segretario del partito rappresenta un attacco diretto a interessi che frenano ulteriori riforme. In questo senso, un segnale potrebbe venire da iniziative contro dirigenti delle imprese statali, anti-economiche e gravate da troppi interessi. Per altri, il tentativo è di ridare slancio all’immagine del partito, colpendo settori e personaggi-simbolo della sua inefficienza nel ruolo-guida. A conferma di questa seconda ipotesi, sarebbe lecito per i cinesi attendersi che venga imposto l’obbligo ai funzionari di pubblicizzare redditi e beni, ma finora proprio il partito ha negato questa possibilità. Yang Hengjun è un apprezzato intellettuale e blogger, con milioni di contatti. La sua opinione è di fiducia critica verso le iniziative ufficiali. «Non vi è dubbio che la campagna anti-corruzione tocchi interessi essenziali. Inizialmente alcuni pensavano che fosse solo un segnale di conferma della propria autorità da parte del nuovo governo e che tutto sarebbe presto tornato alla normalità. Invece hanno presto scoperto che non è così». «Possiamo dire che la lotta contro la corruzione riguardi solo alcuni funzionari? Assolutamente no! - prosegue il noto blogger -. La fonte della corruzione è in un governo con un potere illimitato e senza controllo. Una caratteristica della corruzione è che essa è diventata uno stile di vita per generazioni di cinesi e ancor più per i gruppi elitari». Più di un dubbio sulla reale portata dell’azione in corso, è espresso da Duan Yuzhou, accademico dell’Università di Macau. «Dato che lo stesso sistema elettorale coinvolge solo le élite che beneficiano del sistema, un radicale cambiamento di struttura politica è prioritario. In secondo luogo - prosegue l’intellettuale - applicando l’approccio marxista, un comportamento moralizzatore non è in sé rivoluzionario ma diventa punitivo all’interno di un’unica classe borghese. Quindi l’azione anti-corruzione non può cambiare la struttura del potere. Terzo, la struttura politica cinese alimenta la corruzione». «Le pratiche corruttive, tuttavia - aggiunge Duan - sfidano la legittimità del Pcc e questo rende necessarie occasionali iniziative moralizzatrici. L’attuale campagna non combatte efficacemente quello che pretende di combattere. Al contrario, viene usata per legittimare la leadership del partito e proteggere il suo interesse collettivo».
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