mercoledì 21 luglio 2010
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Caro direttore,sono un dirigente d’azienda che in quasi 35 anni di esperienza ha avuto modo di incontrare e lavorare con molte persone e che oggi di fronte alla degenerazione, a mio parere, dei rapporti nel mondo del lavoro, si pone delle domande più come padre di quattro figli che come dirigente d’azienda e osserva con più attenzione ciò che nella quotidianità accade anche fuori dal mondo del lavoro. Devo dirle che la sorpresa è stata grande. Pensavo di aver seguito e quindi osservato l’evoluzione del mondo del lavoro, non dal punto di vista economico e finanziario, ma dal punto di vista dei rapporti interpersonali o, come si direbbe in linguaggio aziendale, relazionali e in qualche modo capito che la trasformazione delle persone, specialmente se a certi livelli di potere, fosse una condizione quasi fisiologica anche se non sempre condivisibile.Non è così oggi, e infatti mi attanaglia un quesito: è la degenerazione dei rapporti del mondo del lavoro che ha contaminato la società nel senso della "disumanizzazione" dei rapporti, o il contrario? Cioè, la progressiva degenerazione della società verso la cultura della prevaricazione, o meglio del successo prevaricatore a ogni costo, ha prodotto una classe dirigente rampante al punto da perdere la misura dell’umano e ha ridotto le relazioni a una mera questione di convenienza sia essa economica, di potere o di immagine? È questo processo che ha immesso nelle aziende persone che non hanno più il "senso del vivere civile"?Vede direttore, noi dirigenti d’azienda, dopo aver  "imparato" dai nostri collaboratori che costruire un team è un fatto sostanziale e non formale, rischiamo di vivere una sconfitta del nostro modo di fare management in aziende spesso di successo.Assistiamo alla distruzione di quello che abbiamo sempre creduto un valore economico vincente perché valore in sé: considerare i collaboratori "persone" e non "risorse", al pari di un budget, o di una scrivania, o di un pc. O meglio, vediamo perdente questa filosofia se paragonata alla dilagante cultura del successo nel breve o brevissimo periodo, di manager rampanti costruiti da (e per) fondi di investimento, per i quali il massimo della strategia è far lievitare il valore di un’impresa nei due anni successivi all’acquisizione, costi quel che costi, senza preoccuparsi di ciò che avverrà nell’azienda una volta raggiunto l’obiettivo. Noi manager "perdenti" abbiamo sempre cercato di conciliare le legittime aspirazioni dei nostri collaboratori con le esigenze dell’azienda, e non certo per magnanimità o buonismo, ma perché oltre che considerarla una scelta "umana" (so che questa parola oggi è desueta) era, e crediamo sia, una strategia conveniente per l’azienda. Allora, quale considerazione possiamo fare noi cinquantenni superati, carichi di "esperienza senza valore" e poveri della "dinamica del mercato" di fronte a tale costante impoverimento di "senso" (e arricchimento di altro o di altri), se non constatare che questo "senso" manca nelle aziende in quanto si è perso nella società? Da elettore del centro-destra non vorrei mai arrivare alla conclusione che il continuo facile "successo" di certa classe politica, e non solo, attraverso i "mezzi" che ci vengono ogni giorno sbattuti in faccia dalla cronaca, sia corresponsabile di questo degrado sociale e abbia costruito un tessuto sociale che ha generato una mutazione "antropologica" delle relazioni. Voglio credere che il libero mercato sia un modo "libero" di far fruttare i propri talenti senza prevaricare quelli degli altri. Voglio pensare che questo "senso" della vita e quindi del lavoro, pur essendo materia ormai difficile da trasmettere ai nostri figli, possa essere un’impresa ancora realizzabile pur rimanendo una sfida, la vera sfida per il domani, se vogliamo avere una speranza "umana" per loro ma anche per noi.Quello che lasceremo loro non sarà la nostra carriera, quello che guarderanno non sarà il nostro successo ma la nostra tensione al desiderio, il desiderio di felicità non il desiderio di successo, perché oggi si vedono ogni giorno circondati da "infelici di successo". Il successo vissuto oggi come surrogato della felicità. Per i miei figli desidero ciò che desidero per me, non un surrogato.

Gaetano Rossi

C’è amarezza nella sua riflessione, gentile dottor Rossi. Ma c’è anche chiarezza e, nonostante l’autoironia, una lucida e combattiva determinazione. Possiamo, e dobbiamo, continuare a essere noi stessi. Possiamo, e dobbiamo, avere chiari e proporre i valori di riferimento (la dignità di ogni vita umana e la sua priorità rispetto a ogni altro interesse; il fertile e fondamentale ruolo della famiglia...). Possiamo, e dobbiamo, avere il coraggio di leggere la realtà per quello che è e denunciarne – come fa lei – la «degenerazione». Riconoscere il male è il primo passo per affrontarlo e curarlo. Ma il male in una società non nasce e si propaga da solo, ha bisogno della nostra adesione o almeno della nostra remissività o anche solo della nostra apatia. Il male del “carrierismo” e la corsa al successo facile “costi quel che costi” si manifestano e si scatenano in un vuoto di proposte e di modelli positivi. Questo è il problema e questa è la sfida che ci sta davanti. I cattolici italiani, guidati e rafforzati dalla voce dei loro vescovi, stanno ricordando a tutti che è una «sfida educativa» e che è urgente che tutti, appunto, si rimbocchino le maniche per accettarla sino in fondo, in ogni ambito della vita sociale. Serve un salto di qualità e serve ora, perché c’è in gioco – persino drammaticamente, anche se non ce ne diamo per intesi – la qualità del futuro nostro e dei nostri figli. Lei, da padre e da uomo abituato alla responsabilità, torna a dircelo con coinvolgente passione.
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