lunedì 8 dicembre 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
​C’è un dato che merita di essere sottolineato nell’indagine giudiziaria che oramai tutti chiamano "mafia capitale": è a prima volta che s’ipotizza l’esistenza e l’operatività di un’organizzazione di stampo mafioso senza che ci sia un imputato siciliano, calabrese, campano o pugliese. A Roma il procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone ha proposto quest’impostazione, accolta dal Gip, nei confronti di Massimo Carminati, noto esponente di una delle sigle più importanti dell’estremismo e dell’eversione fascista coinvolto in passato in episodi che fanno parte del lato più oscuro della storia d’Italia, dalla strage di Bologna all’assassinio di Mino Pecorelli, riuscendo a uscirne sempre indenne.L’organizzazione mafiosa romana è un unicum nel panorama italiano perché è composta per intero da uomini dai trascorsi politici di destra, da imprenditori, faccendieri, colletti bianchi della migliore acqua, uomini in giacca e cravatta che certo non provengono dal disagio sociale delle periferie romane e che anzi hanno lucrato in modo immondo sul disagio e sull’immigrazione. La Procura della Repubblica di Roma ritiene che perché ci sia un’associazione mafiosa non ci sia bisogno d’una violenza permanente né un controllo militare del territorio; è necessario e sufficiente l’uso del metodo mafioso e cioè della disponibilità della violenza, della capacità di usarla tanto da determinare assoggettamento e intimidazione nei confronti di un numero più o meno elevato di persone. Suggerisce l’idea o la possibilità che il metodo e il modello mafioso si possano estendere e radicare ben al di là delle regioni dove storicamente sono nate le mafie italiane, e che per essere mafiosi non occorra più essere "meridionali" o ricorrere in via esclusiva alla violenza o al controllo del territorio. È un’ipotesi ardita e innovativa, che farà discutere sul piano giuridico appena si sarà posata la polvere del clamore mediatico e politico, e che sarà interessante vedere se reggerà fino in Cassazione. Ma non c’è dubbio che il tema è posto, e che tema! In passato, nei primi anni Ottanta del Novecento, era già accaduto che nei confronti di Alberto Teardo, presidente della Regione Liguria, fosse ipotizzata senza successo l’associazione mafiosa. Un decennio più tardi toccò alla banda di Felice Maniero l’ "onore" di essere condannata per associazione mafiosa. Una mafia operante in una parte del Veneto e composta da veneti, il cui livello criminale non è comparabile con quello dei romani. La mafia romana convive a Roma con altre mafie storiche come la ’ndrangheta e la camorra che si sono comprate negozi e attività commerciali di pregio nel cuore del centro storico o come i Fasciani e i Casamonica, espressione d’una criminalità più casereccia e violenta. E non è detto che tra le mafie tradizionali e quella romana non ci sia un filo di collegamento; e forse qualcosa di più. Emergono, oltre a quelle molto pesanti e devastanti di uomini del Pd (non a caso ora commissariato da Matteo Renzi) le gravi responsabilità dell’ex sindaco Gianni Alemanno, che comincia ad ammettere d’aver quantomeno sbagliato nella scelta degli uomini della sua squadra. La politica romana e nazionale è frastornata e ognuno corre ai ripari come può. Non sarà facile riprendersi dopo una batosta del genere e non avverrà a breve anche perché non è il classico caso di corruzione; è molto altro. Certo c’è da riflettere a destra e a sinistra sul fatto che, per esempio, la politica a Roma, capitale d’Italia, sia stata bloccata per un mese a discutere degli accessi al centro storico e dei posteggi di una panda rossa del sindaco Marino e nessuno dei litiganti pare fosse consapevole di cosa continuava a succedere nelle viscere della città, della melma maleodorante che stava per emergere in superficie in una città splendida, saccheggiata e in molti modi sporcata. Non se n’era accorto (o aveva finto di non vedere e di non sentire) perché oramai troppa politica, non solo nel "mondo di mezzo", si dimostra vecchia e cattiva, genuflessa a poteri criminali o mafiosi oppure da essi intimorita. Un’altra politica è possibile è necessaria, e in parte già c’è. Ma bisogna che ai cittadini «schifati» quanto è più il presidente del Consiglio sia ben chiaro, guardando alla capitale d’Italia e non solo, chi è il «maestro di ballo». E bisogna che sia chiaro adesso. 
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: