«Dentro c’è il rasoio, il breviario, l’agenda, un libro su santa Teresina, di cui sono devoto». Una borsa nera, sobria, stretta tra le dita di un Papa che sale una scaletta d’aereo. Dentro, gli oggetti di sempre: quelli dell’uomo, del sacerdote, del pellegrino. «Io ho sempre portato una borsa quando viaggio, è normale». E in quella normalità si compiva, ancora una volta, una rivoluzione silenziosa.
Alcuni di noi sono vissuti in un’età singolare, che ha visto gli ultimi campi dissodati da un aratro trainato da buoi e l’avvento dell’intelligenza artificiale. Un papa portato in sedia gestatoria tra flabelli di ispirazione egizia, e oggi un altro papa — con scarpe nere e robuste — salire a piedi su una scaletta d’aereo con una borsa tra le mani.
C’è una continuità meravigliosa nel ministero petrino, con buona pace di chi legge la storia della Chiesa in termini di strappi o conservazione. Da san Paolo VI, che depose la tiara, a san Giovanni Paolo II sugli sci, da Benedetto XVI che compì l’atto inaudito della rinuncia, fino a Francesco, che è entrato in San Pietro con poncho e pantaloni scuri, che rideva, piangeva, portava la sua borsa.
Dettagli? I grandi romanzi e i capolavori del cinema raccontano tutto attraverso i dettagli. E forse anche di Francesco si può dire qualcosa a partire da lì: dalla sua umanità senza veli, capace di parlare all’umanità vera, quella che non è mai intera se non accetta la propria povertà.
Per Francesco i dettagli non sono stati semplici scelte di stile. Sono stati segni. Segni del sacro che cambiano. Dopo secoli in cui il sacro veniva trasmesso anche attraverso la distanza e la solennità, la Chiesa ha scelto segni kenotici: segni di abbassamento, di svuotamento del potere, di prossimità alla condizione umana. Segni che non umiliano il sacro, ma lo liberano, lo rendono leggibile. Non tradiscono la gloria di Dio, ma ne svelano la verità più profonda: l’amore che si fa vicino.
Francesco ha sbriciolato molto del muro — spesso invisibile ma reale — che separa la Parola dalle persone. Il Vangelo, con lui, non è rimasto mai custodito in alto, ma è sceso. Si è fatto carne, storia, presenza concreta. Dalla benedizione chiesta al popolo nel giorno della sua elezione, ai piedi lavati ai carcerati anche nelle sue ultime ore — “perché loro e non io?” — fino all’abbraccio festoso della piazza nel giorno del congedo pasquale, Francesco ha percorso un itinerario comunicativo che è stato sempre relazione.
Ma in questo processo ha posto un segno ancora più radicale: ha scelto i poveri. Non in chiave ideologica, né come categoria economica, ma come rivelazione dell’umano e accesso al divino. Nei volti scartati, nei corpi feriti, negli sguardi smarriti ma ancora vivi, il papa ha riconosciuto — direi ostinatamente — il volto stesso di Cristo. La sua è stata una scelta teologica, non strategica. Incarnazione, non immagine. Il povero come luogo teologico. Come Francesco d’Assisi, appunto, che volle per sé un Vangelo “sine glossa”.
Ecco il segno più intenso, profondo, evangelico, ultimo: “I poveri li avrete sempre con voi”. Francesco ha reso visibile che la condizione umana è costitutivamente povera, e che solo da lì si può parlare di Vangelo.
Nel tempo ferito, disilluso e disorientato che ha attraversato, ha saputo parlare al mondo, cioè al cuore di ogni donna e ogni uomo, col linguaggio stesso di Gesù: non da giudice, ma da fratello. Non da dominatore, ma da servo. Non da voce lontana, ma da presenza accanto. Il suo pontificato ha riacceso l’annuncio più semplice e sconvolgente: Dio è vicino. Una vicinanza detta con parole quotidiane, con gesti minimi, con il linguaggio che capiscono i piccoli e gli ultimi. Con la discrezione di chi si china, non di chi si erge.
E poi quel “Chi sono io per giudicare?”, che ha fatto il giro del mondo non per la sua audacia, ma per la sua fedeltà al Vangelo. Un’espressione che ha spezzato argini e aperto orizzonti. E si intreccia a quei sorrisi, a quelle risate leggere — mai banali — forse ispirate a san Tommaso Moro: l’autoironia profonda di chi sa di essere fragile e amato.
La Tradizione vivente, quella che ha afferrato i santi e per cui la fede giunge a ciascuno di noi, è più forte di ogni lettera scritta e passa attraverso il rischio delle relazioni interamente umane: papa Francesco ha spezzato modelli del sacro che separano per darci accesso alla bellezza contagiante, attrattiva, della santità.
Del resto, finché saremo sulla terra, ci accompagnerà la dinamica pasquale: passione, morte e resurrezione, intrecciate in un’unica verità. E in quell’ultima ora, ci presenteremo con tutto l’umanità che siamo: infedeltà e amore, fragilità e forza, dubbi e convinzioni. Ed è lì che Francesco ci ha ricordato ciò che spesso dimentichiamo: che Dio non cerca i perfetti, ma i veri. Che la Tradizione non è cenere da custodire, ma fuoco vivo da tenere acceso.
E nel dettaglio di una borsa nera con un rasoio e un breviario, su una scaletta qualunque, c’era già tutto.

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