A volte più di mille convegni serve un buon film. E “Io sono la fine del mondo” di Gennaro Nunziante con Angelo Duro protagonista, oltre a far ridere di gusto, ha il merito di far pensare intorno a una questione sempre importante e sempre difficile, la famiglia, e più in generale le relazioni. Il ragazzo trentenne “sensibile” che torna per un po’ a casa a Palermo per accudire i genitori, in realtà per “vendicarsi” di loro, offre ad autore e protagonista un quadro narrativo, ricco di gustose sorprese, che permette di mettere in scena i difetti della famiglia borghese contemporanea. L'apparente cinismo, politicamente scorrettissimo, del personaggio di Duro, già celebrato nei teatri e sui social, diventa, come nel caso nobile di Pirandello, altro siculo, il liquido corrosivo che libera la vita da incrostature, da luoghi comuni.
Diviene per così dire la magia che svela le ipocrisie o le falsità di tante scelte o atteggiamenti nel campo delle relazioni familiari e non solo. Il protagonista “fa pagare” ai suoi genitori e non solo a loro (la sorella, la ex, la dottoressa e altre persone incontrate) la superficialità e soprattutto la mancanza di vero affetto con cui vivono. Che lo facciano per comodità borghese (soprattutto) o per paura, per utilitarismo o per quieto vivere, la mannaia di Angelo Duro dissipa le nebbie. Lui è “la fine del mondo”, di quel mondo che, se guardiamo intorno, domina. Lo fa coi modi della commedia, usando il cinismo e non confermandosi in esso come fa spesso invece la tradizione della commedia italiana.
Qui il cinismo è l'arma, esibita, evidente, usata per illuminare la realtà, non il sostrato nascosto che invece la opacizza e la rende poco interessante. Usciti dal cinema, infatti, ci si sente scossi a leggere meglio, a usare più affetto e meno convenzioni, a vivere le relazioni non come gran circo di trucchi per vivere quieti e comodi, esibendo una retorica dei valori che basta una battuta coraggiosa a smontare nella sua vacuità. Nell’epoca della retorica spesso comoda e vuota sulla “empatia”, sulla “cura”, la scure cinica e sarcastica di Nunziante/Duro apre spiragli di aria fresca, di libertà, come deve fare una vera intelligente commedia. E serve più di cento convegni sulla famiglia e le relazioni tenuti da psicologi, politici, vescovi, o cosiddetti esperti. Certo, come ogni commedia ben fatta anche questa corre sul filo, si assume rischi, chiede allo spettatore di leggere oltre i testacoda, le singole battute.
Il personaggio di Duro, ritagliato esattamente su quello che si è fatto amare nelle sue stand-up comedy che ne hanno rivelato il talento, permette con la sua manifesta, esibita “assurdità” di svelare ben altre e meno manifeste assurdità. Mentre spesso la commedia italiana inclina verso un realismo farcito di forzature e coloriture quando non vere e proprie volgarità che nascondono uno sguardo senza speranza verso la realtà, qui il cinismo serve invece da defibrillatore per cuori spenti e adagiati. Una leva verso una possibile riscossa, per dare più affetto alla realtà, fuori da calcoli e comodità che stanno spegnendo molte zone della nostra società, compresa la famiglia divenuta un fantasma di borghesia in declino. Lo scopo di una commedia è far divertire e in sala si ride parecchio. Ma una commedia intelligente ottiene anche lo scopo, sfumate le risa, di lasciare un deposito nel cuore e nella mente. Un deposito di desiderio, non una ennesima banalizzazione della vita. Merito, in questo caso, di un personaggio ben tagliato, ben interpretato e credibile nella sua assurdità. E di una storia che ci riguarda.