L'Europa e l'ossessione dei rimpatri
mercoledì 12 marzo 2025

Un’Europa frastornata e impaurita, stretta tra l’aggressione militare di Putin e l’aggressione economica di Trump, tenta di ritrovare compattezza identificando un nemico comune da contrastare: gli immigrati irregolari. Anche a costo di arretrare nella garanzia dei diritti umani fondamentali, di cui rappresentava nel mondo la paladina più impegnata.
Quella dei rimpatri è una vera ossessione per Ursula von der Leyen e per la Commissione europea. Nella versione inglese del Nuovo Patto su Immigrazione e Asilo il termine “ritorni” già ricorreva più di 90 volte, e l’incremento dei rimpatri, volontari o forzati, era presentato come una priorità irrinunciabile. In effetti nel 2023 nell’Unione Europea su 430.560 decreti di allontanamento nei confronti di immigrati irregolari, soltanto un quarto circa si è tradotto in ritorni. Ancora più magro il bilancio italiano: 4.751 rimpatri, pari al 16,8% dei provvedimenti di espulsione. Ovviamente, gli immigrati sanzionati sono soltanto una frazione del totale degli immigrati irregolari: spesso richiedenti asilo respinti, i più facili da individuare e colpire. Tra i malcapitati, quelli che si riesce a espellere sono poi quelli che si arrendono, che non reggono più una vita di paura e di nascondimento, che vengono da Paesi troppo deboli per rifiutarsi di riammetterli, nonché abbastanza vicini da non comportare troppi costi per rimandarli indietro debitamente scortati dalle forze dell’ordine. Mai giunta notizia, per esempio, di espulsioni riuscite verso la Cina. E a parte i costi umani e sociali di questi allontanamenti, che Trump chiamerebbe senza fronzoli “deportazioni”, non è neppure detto che gli espulsi rinuncino a tornare in Europa, dove hanno vissuto e lavorato magari per anni.
Non paga dell’esternalizzazione dei confini, che previene l’arrivo di potenziali migranti e richiedenti asilo scaricando l’onere di fermarli sui Paesi di transito, con l’implicito impegno a evitare di guardare ai mezzi che adottano, la Commissione Ue ha deciso di imprimere una sterzata sovranista anche al dossier rimpatri. Le istanze italiane e l’accordo con l’Albania c’entrano poco. Già il nuovo Patto Ue parlava di armonizzazione delle regole vigenti nei diversi Paesi, di trattenimento alle frontiere (l’Asgi, Associazione di Studi Giuridici sull’Immigrazione, aveva parlato di «finzione giuridica di non ingresso»), di procedure accelerate di esame delle domande di asilo per chi proviene da Paesi definiti come “sicuri” (per l’Asgi: discriminazione per nazionalità). Già in quel documento si introduceva la possibilità di inviare gli espulsi in Paesi terzi, con cui avessero però “legami significativi”. Ora si parla di “hub di rimpatrio” extraterritoriali. I centri albanesi, destinati a richiedenti asilo in arrivo la cui domanda deve ancora essere esaminata, sono un’idea deprecabile, costosa e fin qui fallimentare, ma non hanno attinenza con questa ipotesi, che semmai andrebbe paragonata con le deportazioni trumpiane verso la base di Guantanamo.
Ora l’Unione Europea si appresta a varare una direttiva per dare attuazione alla volontà di incrementare i rimpatri: un sistema di regole condivise, vincolanti e (forse) operative, per riuscire negli intendimenti a scacciare un po’ di umanità dichiarata in esubero. Nello scenario plumbeo che incombe sul nostro continente, per serrare i ranghi l’Ue ha individuato in chi arriva dal Sud del mondo (non nei rifugiati ucraini, quattro milioni) «quel catalizzatore d’odio che emerge in condizioni di incertezza sociale», come ha notato Francesca Paci su La Stampa. Sperando di placare l’avanzata sovranista, ne sposa la visione e le ricette. Proprio quando fra l’altro operatori economici e famiglie richiedono più manodopera, e quindi più ingressi. Ѐ il paradosso illiberale che probabilmente accompagnerà negli anni a venire il malinconico tramonto degli ideali europei: vogliamo escludere o cacciare gli immigrati, ma non possiamo evitare di averne bisogno.


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