martedì 4 ottobre 2011
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In una situazione politica ed economica stagnante, che legittima le apprensioni per un declassamento dell’Italia, l’annuncio del general manager della Fiat Sergio Marchionne di voler lasciare sin dal 2012, quindi senza perdere tempo, la Confindustria, sta generando interrogativi d’ogni sorta.In verità, per chi conosce la storia della Fiat, le prese di posizioni dirompenti del colosso torinese, spina dorsale del nostro sistema industriale, non sono una novità. Si può anzi sostenere che appartengano al suo Dna. Basta ricordare: negli anni Dieci del secolo passato, il fondatore Giovanni Agnelli, promosse la creazione dell’Associazione degli industriali piemontesi (anticipazione della Confindustria), affinché i produttori, sindacalizzandosi, potessero fronteggiare il nascente movimento operaio e il Partito socialista che aveva in Torino una delle roccaforti. Fu poi decisiva l’energica presa di posizione dell’azienda per stroncare, all’inizio degli anni Venti, l’occupazione delle fabbriche. Nel secondo Dopoguerra (dopo il Ventennio fascista), la Fiat si pose in prima linea per la Ricostruzione, emarginando i Comitati di gestione egemonizzati dalla socialcomunista Cgil che ne frenavano lo sviluppo. Rammentiamo ancora, nell’autunno del 1980 la risposta sponsorizzata da Cesare Romiti con la benedizione di Gianni e Umberto Agnelli, culminata nella "marcia dei 40.000" che pose fine all’occupazione delle linee di montaggio e all’anarchia aziendale.

Senza queste premesse, è impossibile comprendere il gesto di Marchionne che si è impegnato in una battaglia su due fronti. Operazione a massimo rischio, secondo i manuali di strategia. Eppure a Marchionne la mossa ha da essere apparsa inevitabile. La produttività delle fabbriche italiane del gruppo è paurosamente bassa: un terzo, la metà e talvolta anche meno, degli impianti ubicati all’estero, dalla Polonia ai Balcani al Brasile. Fino agli Usa, ove i sindacati accettano in Chrysler contenimenti salariali e aumento dei ritmi, per non finire schiacciati dalla concorrenza asiatica. Nonostante lo spirito collaborativo di Cisl, Uil e Fismic in molti casi le trattative rischiano di finire su un binario morto.

Certo, nei programmi orizzonte 2015 e oltre della Fiat la quota delle vetture prodotte in Italia è modesta (non più di un milione su un totale di sei a livello mondiale), però la terra d’origine non s’abbandona a cuor leggero. Ma ecco verificarsi quel che in Fiat mai si sarebbero attesi. Dapprima la timidezza della presidente confindustriale Emma Marcegaglia nell’avallare l’atteggiamento spesso rigido verso i sindacati e in particolare la Cgil. Già questo aveva fatto torcere il naso a Marchionne (italo-canadese con residenza svizzera) e alla famiglia Agnelli rimasta azionista di riferimento dopo avere superato la tentazione di abbandonare il campo. Quindi la sensazione di «non riconoscersi più» nell’attuale dirigenza di Confindustria, accusata di volere ripercorrere i sentieri senza sbocco di un consociazionismo gestionale già bocciato da passate esperienze. Diceva brusco Vittorio Valletta, indimenticabile super manager dagli anni Venti ai Sessanta: «Prima si produce, poi si discute...». Agli occhi di Marchionne la Marcegaglia, col suo sviscerato amore per i tavoli, i comitati, le convention, appare la portatrice di una filosofia agli antipodi. Pertanto ha deciso di tagliare il nodo alla maniera gordiana: se la Confindustria ha perso ogni sintonia con la Fiat, perché dovremmo restare? Ed ecco la lettera d’addio. Probabilmente irrevocabile.Naturalmente, dietro il gesto che a Torino considerano di «legittima difesa» potrebbero nascondersi altre ragioni. In primis la volontà di dare una scossa e una «guida pratica» a un ambiente imprenditoriale da parecchie stagioni alla ricerca di nuovi modelli di riferimento e aggregazioni. Infatti la crisi morde le aziende, richiedendo medicine amare e non certo pannicelli caldi. Alcuni osservatori non escludono però «retropensieri», ovvero il desiderio di Fiat di sostenere, con l’avvicinarsi delle elezioni, forze che interpretino la voglia di rinnovamento in un Paese dove cresce il dissenso verso le attuali aggregazioni, la cui inadeguatezza è sotto gli occhi di tutti. Ipotesi da verificare. Nel frattempo una certezza: la Confindustria ha perso il suo pezzo più pregiato, e storico. Potrebbe essere l’inizio di una frana.

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