Quando il gigante cade i lillipuziani festeggiano
giovedì 12 aprile 2018

Occorre partire dalla fine per chiedersi se il calcio potrà avere un nuovo inizio. Dall’epilogo del drammone juventino a Madrid, sceneggiato da una regia diabolica dove i vinti sono più protagonisti dei vincitori, e dove l’epica del pallone ha scritto un’altra pagina indelebile.

Bisogna partire dalla rimonta impossibile che diventa vera, dallo zero che diventa tre, dal sogno spezzato dalla beffa, dal contatto tra Benatia e Lucas Vasquez, dal rigore contro, forse dubbio ma difficile da non dare e impossibile da digerire, dal cartellino rosso al furioso capitano portiere di una squadra ma anche di una nazione, cacciato dal campo e metafora di un addio dopo una partita di lotta e di governo.

La sconfitta più desolante della Juventus battuta dal verdetto del campo inizia però solo un secondo dopo, quando soprattutto sui social si scatena l’acredine di chi la detesta e quindi festeggia, godendo il triplo per l’illusione altrui, faticosamente scalata e poi dissolta nell’acido. Sono quasi sempre tifosi malati, costretti al divano dall’impalpabilità delle soddisfazioni che ricevono dalle loro squadre, ma nonostante questo incapaci di contenere la loro gioia avversa, persino cattiva, comunque di feroce rivalsa.

Quando cade il gigante, i lillipuziani fanno festa. Ci sta, fa parte della pulsione umana. Ed è sempre stato così, nella vita e nella storia prima ancora che nel calcio. Anche quando c’erano motivi di sangue o sociali, se non per giustificarla, almeno per renderla comprensibile. Senza fare paragoni irriverenti, da piazzale Loreto alle monetine all’Hotel Raphael, la disfatta del tiranno scatena sempre la pulsione di chi lo ha sofferto da inerme.

Ma il pallone meriterebbe altro ambito, dovrebbe parlare la lingua dello sport, che riconosce l’impegno e apprezza la rincorsa dell’impresa. Invece l’odio represso che diventa esultanza per la sconfitta degli altri è un bagaglio di bassezza tutta calcistica, e quasi sempre tutta in bianco e nero, i colori della squadra più amata d’Italia che è molto di più anche la più detestata. Un retaggio di rigore, un primato conquistato per passate arroganze, scandali (e ieri pure sfoghi sopra le righe) che hanno segnato la storia di uno sport sporcato e tuttavia incapace di parlare al presente ma ancora unico nella sua capacità di sollevare passione, spettacolo e rovesci sull’erba.


Questo calcio da nobilissima arte geometrica della tecnica e del talento, del campanile e della festa, della domenica e della squadra, si è ridotto a sfogatoio d’Italia. Riconosce a volte l’onore dei colori diversi dai propri di fronte ad una vittoria storica, ma infierisce sempre sulla sconfitta. Popola stadi dove in campo anche navigati professionisti urlano in faccia all’arbitro le cose peggiori, dove sugli spalti si abusa di offese, e si promettono punizioni e botte, dove ci si gemella e ci si sceglie nell’odio, innescando una micidiale bomba di interessi, divismi e ignoranza post-partita che non esplode solo perché non ha neppure la dignità di crollare. E così, alla fine di una partita esausta, si resta attoniti ad ascoltare la propria speranza per un futuro diverso, dove la coscienza di chi ancora ha buon senso ed equilibrio rimette, sospirando, la palla al centro.

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