venerdì 7 ottobre 2011
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Si può ancora vivere con coraggio. E si può morire con eleganza. Anche qui, anche adesso. Nella realtà che si smaterializza, nel tempo dell’inesperienza digitale. C’è qualcosa che rimane immutato, una manciata di prerogative umane dalle quali non riusciamo a separarci. L’eleganza, appunto. E il coraggio. Basta così? A Steve Jobs, il fondatore di Apple, è bastato ed è questo, in definitiva, il motivo per cui vale la pena ricordarlo. Oltre che per le meraviglie tecnologiche di cui è stato dispensatore fin dagli anni Ottanta, alimentando un entusiasmo che – come è stato giustamente osservato – ha rischiato talvolta di assumere i tratti di un culto misterico, evolvendosi come una variante snob del tecnosciamanesimo più visionario.Qualcosa, però, ha sempre trattenuto Jobs dal compiere il passo definitivo. Gli si chiedeva di essere un guru, lui si accontentava della sua umanità. Difetti compresi, intendiamoci, perché un’altra caratteristica di noi terrestri è proprio quell’imperfezione che l’universo Mac, con il suo design essenziale e i colori raffinati, fa di tutto per respingere. I testimoni ci dicono che sapeva essere autoritario, gli storici dell’età informatica fanno notare che, a ben vedere, non ha inventato quasi nulla di nuovo, rinnovando però puntualmente tutto ciò di cui sceglieva di occuparsi. Dando prova di coraggio, ancora una volta. Propendendo per l’eleganza.La malattia che, dopo una lunga battaglia, lo ha portato alla morte non è stata un incidente di percorso. Non è stata subìta come un intralcio, né patita come un’umiliazione. Impresa non facile, in quest’alba di XXI secolo, in cui magari ci si divide per le preferenze di sistema operativo, ma in materia di salute fisica e di bellezza esteriore i dubbi non sono ammessi. Steve Jobs non ha nascosto il suo male. Lo ha mostrato con discrezione, semmai, suggerendo il paradosso scandaloso per cui perfino un corpo smagrito dal cancro e provato dalle cure ha diritto a trasformarsi in una silhouette preziosa. Senza morbosità, semplicemente rivendicando l’eleganza come forma estrema di coraggio.Non è stato un compito facile. Per un uomo del suo calibro la salute cessa di essere un fatto privato, diventa una variabile decisiva nel determinare l’altalena della quotazioni azionarie. Ecco perché qualche settimana fa, quando ha capito di non farcela, Jobs ha deciso di fare un passo indietro. Gli era già accaduto in precedenza, ma allora ad estrometterlo erano stati i giochi di potere interni all’azienda. Un’altra caduta, un’altra umana esperienza di debolezza che Jobs aveva poi trasformato nel punto centrale dell’ormai celebre discorso ai laureati della Stanford University, quello che si chiude con l’invito a rimanere folli, a rimanere affamati.Sì, ma affamati di che cosa? Di ricchezza, si sarebbe tentati di pensare, dato che l’ammonimento viene dalle labbra di un multimiliardario. Ci si avvicina di più all’intenzione autentica di Jobs se però si immagina che quella fame sia fame di vita: una dichiarazione di irriducibilità al cospetto della morte, che pure – era stato lui stesso ad ammetterlo – è una grande invenzione, ingiustamente sottovalutata.La vastità del cordoglio che ha accompagnato la sua scomparsa (annunciata dal sito di Apple con una memorabile lapide digitale, tutta giocata sulla nettezza del bianco e nero) rappresenta un elemento inedito nella catena di lutti mediatici che hanno costellato i nostri anni. Per una volta, prima di ogni altra considerazione, ciascuno di noi ha avuto la certezza che era morto un uomo, non che si era spenta una stella del firmamento mediatico o che si era cancellata un’icona del pop. Si può ancora morire così, dunque. Così, più che altro, si può ancora vivere.
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