giovedì 29 dicembre 2011
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La sensazione è che la crisi si stia pericolosamente avvitando, in una catena senza fine di dichiarazioni bellicose, sanzioni, rappresaglie. Dopo otto lunghi, inutili anni di negoziati con Teheran per trovare un compromesso sul suo ambiguo programma nucleare, lo stallo sembra pressoché totale. Da un lato, l’Iran possiede scorte sempre più consistenti di uranio debolmente arricchito, i “mattoni di base” per dotarsi di una bomba atomica, e continua le ricerche in quel campo; dall’altro, si moltiplicano gli avvertimenti di un possibile attacco preventivo sugli impianti nucleari da parte di Israele e degli Stati Uniti. Avvertimenti che in realtà si ripetono da anni. Cosa rende ora un poco più realistico lo scenario di un nuovo conflitto nel Medio Oriente? I fattori sono molteplici e, purtroppo, tendono a convergere sullo scenario peggiore. Innanzitutto, la pazienza verso Teheran di attori regionali e internazionali, così come dell’Agenzia atomica internazionale, pare finita. L’ultimo rapporto dell’Aiea è stato insolitamente severo con l’Iran. L’Arabia Saudita, eterno rivale di Teheran nel Golfo, sembra decisa a contrastare il ruolo geopolitico del vicino a qualunque costo, e a percorrere la stessa pericolosa strada verso il nucleare se non si fermerà il programma iraniano. Fattore da non sottovalutare, il 2012 sarà l’anno delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti.Da sempre l’Iran è uno dei temi più scottanti e più manipolati contro questo o quel candidato dalle lobby di Washington. Guai a mostrarsi deboli (o anche solo disponibili) con Teheran: la Repubblica islamica in campagna elettorale va sempre demonizzata. Non a caso, alla Casa Bianca, i consiglieri più inclini al dialogo sono emarginati. «Gli spin–doctor del presidente – confida un importante consigliere democratico – vogliono solo il linguaggio duro delle sanzioni e delle minacce di bombardamento». Nel 1980, del resto, i democratici americani persero con Carter la presidenza proprio per colpa dell’Iran: meglio non ripetere l’errore e picchiare duro. Ossia rincorrere i repubblicani sul loro stesso terreno; mai come ora, think tank e centri di ricerca della destra, o più vicini a Israele, sfornano dubbi studi che dimostrano come l’attacco militare sia il minore dei mali. A queste aumentate pressioni il governo di Teheran reagisce nel solito modo: rilanciando minaccia a minaccia e facendo la faccia feroce. Ancora l’altro giorno, il vicepresidente Mohammed Reza Rahimi ha avvertito l’Occidente che, in caso di sanzioni sul petrolio, l’Iran chiuderà gli stretti di Hormuz, la vena giugulare del petrolio mediorientale. Che riesca effettivamente a farlo, è dubbio; ma tale escalation avrebbe certamente spaventose conseguenze a livello economico e militare. Non a caso, ieri è arrivata la risposta americana: non tollereremo azioni del genere.A rendere più difficili le trattative e fragili i pochi canali di contatto ancora aperti, vi è poi lo scontro sempre più forte fra i conservatori iraniani. Spazzati via i riformisti dalla brutale repressione degli ultimi anni, ora la lotta è tutta interna, fra i populisti radicali del presidente Ahmadinejad e il clero tradizionalista vicino alla Guida suprema, Ali Khamenei. Per avvantaggiarsi in questa lotta, si ricorre a ogni stratagemma: chi vuole impedire ogni contatto con l’Occidente, annuncia l’esecuzione (subito smentita) della sfortunata Sakineh, per la quale si era mobilitata la comunità internazionale. Ahmadinejad, per ingraziarsi una popolazione ostile ha lanciato una “rivoluzione” nell’abbigliamento femminile. Al posto del nero chador o degli informi soprabiti obbligatori per legge, abiti multicolori molto meno severi. Una mossa che, per certo, accentuerà l’ira dei tradizionalisti, ma che va incontro alle richieste della maggioranza delle donne. Trattare con gli iraniani non è mai stato facile. Ma cercare di evitare lo scivolamento per colpevole inerzia verso un nuovo conflitto risulta ancora più difficile, se Teheran è così paralizzata dalle lotte di potere interne.
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