giovedì 14 maggio 2015
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Caro direttore, gli articoli di Luigino Bruni e di Francesco Riccardi, su “Avvenire” del primo maggio, mi hanno alzato un po’ la pressione… Appartengo da una vita a quella fascia “suicida” del monoreddito italiano. Mia moglie, madre di 4 figlie, non ha mai “lavorato” e ovviamente non merita la pensione. Ancora oggi, dopo una vita di continue fatiche e rinunce, accudisce, quando e come può un nipotino e anche come nonna, ovviamente non “lavora”. Io, invece, ho avuto la fortuna di lavorare “seriamente” con uno stipendio almeno dignitoso ma che, diviso poi per sei, a fine mese svaniva. Da sempre implacabilmente tassato alla pari di una qualsiasi coppia italica, magari portatrice di due dignitosi stipendi e di zero figli. Ma la storica e tutta italiana ipocrisia sull’art.1 della Costituzione sta venendo al pettine: i dati Istat ci dicono che semplicemente nascono sempre meno bambini e che quindi il Paese va verso una nemmeno lontana agonia. Da 5 anni sono in pensione. Dignitosa anch’essa (un netto Inps di circa 1960,00 euro, il lordo non serve a granché) continuamente erosa da varie trattenute fiscali, e divisa. Ora per tre: mia moglie e la nostra ultimogenita, da poco laureata e ovviamente in cerca ci lavoro. Poi, una piccolissima mano qua e là anche alle altre tre figlie si cerca di dare. Risultato finale: il fine mese diventa ancora più evanescente di prima. Il mancato adeguamento Istat (poca roba, in fondo, ma per questo ancora più odioso...) non è stato, per me e per mia moglie che non ha mai “lavorato”, una questione di maggior rendita ma di (e la cosa brucia) minore dignità. Sentirmi dire che dopo la sentenza della Consulta rischiano gli interventi a favore dei più poveri, mi offende profondamente. Gli 80 euro dati all’insegna del “Franza o Spagna purché se magna...”, perché è andata così e così va in questo Paese, non potevano invece ripartirsi con priorità ai più poveri, tra i quali spesso si colloca il monoreddito? (Badate bene, lo dico senza alcun riferimento al mio caso). E la miriade di mega stipendi, buonuscite, onorari vari e superpensioni non poteva, questa sì, essere riequilibrata un poco in favore dei più poveri? (Quelli veri naturalmente). E il nostro Parlamento, (sempre più vicino al popolo...): non sarebbe più semplice lasciare elettive le due Camere, ma tutti i membri ridotti a un terzo di quelli attuali? (Anche così non sarebbero pochi). E le nostre Regioni, queste Regioni, per le quali tra poco si voterà, ma a cosa servono? Cosa ci costano? Cosa realmente “producono” di valore aggiunto per questo Paese? E le migliaia di Comuni che, con qualche esiguo migliaio di abitanti, espongono bilanci di svariati milioni di euro? Il risparmio pubblico, quale virtù e capacità politica, è concetto sparito nel nulla? E, ancora, il mondo della scuola, ormai sempre più statalizzata e sempre meno responsabile (ma l’idea di libertà della Resistenza non era, anche qui, tutt’altra cosa?), con costi miliardari per la collettività (e quindi con ulteriore affronto ai più poveri) tali da superare di almeno dieci volte quelli pro-capite delle “libere” scuole paritarie, condannate sempre più a sparire? E il peso del sistema fiscale, tra i più esosi del mondo, che va a braccetto di un deficit pubblico inarrestabile; quando verrà ripartito in modo diverso tra chi ha sulla schiena solo se stesso e chi invece ha il peso di tante persone da mantenere e far crescere? E, infine, sul primo articolo (pilastro di tutti gli altri) della nostra Costituzione (tradita fin dall’inizio alla faccia degli ideali della Resistenza) vogliamo aggiungere che sì, è fondata sul lavoro di tutti ma con ovvia esclusione di quelle scansafatiche (e magari ce ne saranno anche) dette “casalinghe”? Saremo almeno pur sempre un popolo ingiusto, ma certamente meno ipocrita. La Festa, caro direttore, in ogni caso difficilmente tornerà. Cordiali saluti (con la pressione un po’ più bassa). Matteo Parodi Sori (Ge) Mi immedesimo in lei senza difficoltà, caro amico, e con molta simpatia. Condividendo praticamente tutte le sue sottolineature e le sue amare ironie, ma non i suoi “sbalzi di pressione” a causa degli efficaci editoriali di Luigino Bruni e di Francesco Riccardi, che hanno reso più bello il nostro giornale dello scorso primo maggio. Ma, visto che 'Avvenire' lo legge , lei sa già tutto questo o, almeno, l’immagina. In ogni caso, con amicizia, insisto: la Festa tornerà. Dobbiamo crederci e dobbiamo prepararla, dobbiamo cioè “costringere” la politica a fare bene la propria parte. Per questo non ci stanchiamo di incalzare chi ci governa e chi fa le leggi. Tanto più ora che, come si sa, balena l’idea di restituire solo a una parte dei pensionati bloccati, i più “poveri”, ciò che la Consulta – con la sua sentenza rimuovi-blocco – ha stabilito debba essere restituito. La cosa ha senso, ma temo che sia più semplice a dirsi che a farsi. Soprattutto in un Paese dove ormai basta poco per sentirsi attribuire da giornali e politici in cerca di slogan demagogici una qualche “pensione d’oro”. Spero, per esempio, che nessuno si azzardi a considerare “ricca” la sua pur dignitosissima pensione. E soprattutto spero che ci si decida a mettere occhi e progetti su una stortura che è madre e padre di molte iniquità italiane: l’assenza di quell’elementare e sacrosanto strumento di giustizia fiscale che si chiama «quoziente familiare» (si può realizzarlo in vari modi, ma il sano principio di base è considerare la composizione di un nucleo familiare per stabilire la giusta imposizione tributaria sul reddito di un/una contribuente e il giusto livello di servizi da garantire in modo gratuito o con costi ragionevoli a quello stesso nucleo familiare). Se e quando arriverà questa 'riparazione' a una monumentale, pervicace e autolesionista disattenzione della politica, sarà sempre troppo tardi. Meglio, dunque, non perdere altro tempo, sfidando la pazienza di tanti cittadini generosi e perbene. Che ci sia finalmente un po’ di giusta Festa del lavoro, e della famiglia.
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