lunedì 5 ottobre 2015
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Caro direttore,
siamo alle soglie del secondo Sinodo sulla famiglia, reduci dalle veglia in piazza san Pietro che ha confermato quanto questo Papa voglia mettere al centro di tutto la famiglia. L’anno scorso, durante il primo Sinodo, avete intervistato diverse coppie di giovani sposi e fidanzati su “che cosa ci si aspettasse dal Sinodo”. Oggi, con un anello di fidanzamento al dito che un anno fa non c’era, quella domanda mi risuona ancora nella testa. Poi mentre vado al lavoro, alla fermata del bus, mi soffermo su un cartellone pubblicitario (le invio una foto) che il Comune della mia città, Genova, ha affisso sul tutte le paline, due mani intrecciate con la scritta “Cosa ne sai?”, riferendosi alla convivenza e alla nuova possibilità data dal Comune stesso di iscriversi sul registro delle unioni civili e a un ufficio dedicato al sostegno a questo tipo di coppie. Mi chiedo: perché si parla tanto, e spendiamo soldi in pubblicità, sulle possibilità delle unioni civili e non del matrimonio? Lo dico da cittadina e da cattolica, fidanzata e con una paura immensa del matrimonio. Per fortuna ho un fidanzato che condivide con me questo momento non solo nei preparativi, ma soprattutto nel cammino di fede, abbiamo un padre spirituale e tanti amici che ci supportano e incoraggiano nel dire “sì” e nel lanciarci in questa avventura. La paura mia non è solo del futuro, cambiare città per stare con lui e lasciare il mio lavoro, certo questo incide molto, ma la mia paura viene dal mio vissuto familiare. E guardandomi intorno, parlando con amiche, noto veramente che la “paura del matrimonio” di noi – generazione degli anni 80 – è nel passato delle nostre famiglie, quanto sono state lasciate sole nel momento del bisogno, delle difficoltà, facendo ricadere il tutto all’interno della famiglia stessa. I bambini che hanno sentito e respirato quei momenti senza capire, ma trovandosi soli, oggi nel momento in cui devono dire “sì” si ritrovano a fare i conti anche con questi fantasmi, con paure mai condivise, perché negli anni 90 la maggioranza dei tuoi compagni di classe aveva famiglie unite e apparentemente idilliache, i panni sporchi si lavavano in casa e fuori non traspariva niente… Ora, invece, nelle classi la maggioranza dei bambini ha i genitori separati e vive in famiglie allargate, ma un tempo i bambini si tenevano tutto dentro e questo non si dimentica. Se litigare o avere momenti bui nel rapporto di coppia è normale, un tempo non si diceva e non ci si confidava con le altre famiglie della parrocchia, perché le parrocchie alle volte hanno il brutto vizio di erigere a modello famiglie apparentemente perfette, come fossero mostri sacri con cui gli altri nel loro piccolo fanno i conti e non hanno il coraggio di dire quello che magari succede loro. Peccato che a distanza di 20 anni diverse di quelle famiglie modello ora le vedo sfasciate, con figli a loro volta separati e che non fanno frequentare la chiesa ai loro figli. Se quei bambini sapessero che i loro nonni erano l’«esempio di famiglia»! Troppo spesso nella realtà parrocchiale le famiglie sono lasciate sole. Io e altre amiche abbiamo sopportato da sole nel nostro cuore le crisi familiari, ma ce lo confidiamo solo ora a un passo dai nostri matrimoni in cui abbiamo paura di rivivere le crisi in cui le protagoniste potremmo essere noi questa volta e la paura è di far soffrire altri bambini. Tornando al mio Comune, il cartello pubblicitario che vorrei vedere è “Cosa ne sai del matrimonio?”. Con sotto magari scritto: “Sai che ci saranno momenti difficili? Ma nessuno è perfetto, è normale non essere famiglie perfette”!
Qualche anno fa sono stata in “erasmus”, la città dove avevo scelto di studiare era a mille km da casa, le prime settimane sono state durissime, mi mancavano i miei amici, la parrocchia, il mio gruppo di ragazzi dove facevo l’animatrice, tutto, ambientarsi e trovare la mia strada lontana da casa è stato difficile tutti dicevano che l’ “erasmus” era l’esperienza più bella ci si divertiva un sacco, io invece continuavo a viverlo in negativo quei primi mesi. Nel periodo natalizio quando ancora mancavano 6 mesi alla fine del progetto, nel viaggio verso casa, ho conosciuto una ragazza italiana più grande di me, aveva vissuto la mia stessa esperienza “erasmus” in quella città anni prima ed era andata a trovare degli amici, durante il viaggio le raccontai le mie iniziali emozioni negative e di spaesamento e lei mi disse: «È normale, le hanno vissute tutti, ma nessuno te le racconta. Tutti ricordano solo i momenti belli perché poi sono quelli che prendono il sopravvento e ricorderai solo quelli, avrai voglia di raccontare a tutti solo quelli». E così è stato. I mesi a seguire sono stati bellissimi pieni di novità, di amici e di emozioni, vorrei che le famiglie che si occupano degli sposi, dell’accoglienza ad altre famiglie nelle parrocchie dicano questo. Siano come quella ragazza conosciuta in viaggio. Che nessuno si senta famiglia perfetta, ma aspiri con umiltà a esserlo sull’esempio della famiglia di Nazareth. Ai padri sinodali chiedo di accompagnarci, di ricordarci che anche noi giovani cresciuti in famiglie non perfette possiamo vivere la grazia del matrimonio, anche se abbiamo vissuto male quello delle nostre famiglie di origine. So che capirà, perché la prego di non mettere il mio nome e cognome ma soltanto le iniziali. Grazie.
 
M.P.
Capisco, certo, perché lei mi chiede di non firmare per esteso. E accetto la sua richiesta, cara amica, che non mi impedisce di pubblicare con rilievo questa bella lettera di una «fidanzata» (una donna che ha promesso a un uomo la propria «fede»), facendo risuonare le sue efficaci domande alla Chiesa e alla politica proprio nel giorno in cui il Sinodo dei vescovi sulla famiglia si mette al lavoro, cum Petro e sub Petro. Ho poche parole da aggiungere. Due sottolineature. La prima: chi amministra la sua città, come altre e come l’Italia intera, mostra di preoccuparsi più delle forme tenui di convivenza, che di quella che l’articolo 29 della Costituzione e la nostra cultura riconoscono come naturale base della famiglia: l’unione matrimoniale tra un uomo e una donna. Incomprensibile. E non perché non sia giusto, diciamo così, farsi carico delle "debolezze" (in questo caso di unioni che possono finire facilmente con ovvie conseguenze su chi le ha formate e sugli eventuali figli), ma perché il bene comune vorrebbe che prioritariamente si incentivasse la forma di unione che più contribuisce a rendere saldo un tessuto sociale. La seconda sottolineatura riguarda il compito della Chiesa che – papa Francesco ce lo ha ricordato ieri sera – è essa stessa famiglia, capace di generare come una madre, prossima come un padre. Ha ragione, cara e giovane amica, a chiedere alle comunità parrocchiali parole e gesti accoglienti, sguardi giusti, serena fraternità verso le famiglie "non perfette" (infragilite, separate, divorziate, ricostruite, allargate, formalmente mai cominciate …). Fa bene a ricordarci che la realtà propone anche tante di queste situazioni che, nei figli, possono generare – e di fatto generano – la "paura del matrimonio", cioè la paura del "per sempre", e tanto più in un tempo in cui si sperimentano forme di radicale precarietà in molti aspetti dell’esistenza. So che nelle comunità cristiane ci sono esperienze forti nella direzione che lei auspica, e so che non sono sufficienti. Così come so che i padri sinodali hanno messo testa e cuore su tutta, proprio tutta, la realtà familiare. Lei chiede al Sinodo di «accompagnare» i più giovani e l’intero popolo cristiano su una via di speranza. Credo che i padri riuniti con Francesco la stiano già ascoltando. Tutti insieme, con la preghiera e l’ascolto, facciamo loro lo stesso dono.
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