Insegnare, passione e compassione che non finiscono mai (e da riconoscere)
giovedì 27 settembre 2018

Gentile direttore,

sono una insegnante in pensione dal 1999 e dal 2001, come volontaria, mi occupo di alfabetizzazione presso la Casa circondariale di Vercelli. Da qualche anno porto “Avvenire” ai miei “ragazzi” (che sono tutti detenuti) e particolarmente il supplemento “Popotus”, molto gradito proprio perché è semplice, specialmente per i bambini, e i miei ragazzi sono ancora bambini. Alcuni non sono mai andati a scuola, altri non conoscono neanche l’italiano, visto che l’80 per cento dei miei ragazzi è straniero. Mercoledì è il giorno che dedico loro. Lo faccio tutto l’anno, perché non esistono le vacanze estive e i miei ragazzi hanno un turnover vivacissimo: mi pare di tornare alle pluriclassi di lontana memoria... Io insegno italiano, la lingua musicale più bella del mondo. L’unico materiale didattico è una lavagna con i pennarelli cancellabili (lavagna acquistata dalla mia associazione di volontariato, l’Avulss) che uso e faccio usare dai ragazzi. Loro vengono a scuola a mani nude, il carcere non fornisce nulla! È dunque naturale che io acquisti i quaderni, le penne, matite... e le caramelle! Cerco di fare tutto con passione e per compassione, e con i miei ragazzi (che hanno tra i 25 e i 35 anni) sto bene. Vi sono molto riconoscente per il lavoro che fate con “Avvenire” e auguro a lei, direttore, e a tutta la Redazione pace e bene.

maestra Pinuccia (Giuseppina Giara) Vercelli


Dedico la sua lettera, cara maestra Pinuccia, a tutti quelli che sanno e non dimenticano quanto prezioso e speciale sia il mestiere degli insegnanti e che si rendono conto di come una simile “vocazione” non finisca mai. Ma la dedico anche a tutti quelli che senso, bellezza ed essenzialità di questo lavoro non li capiscono e non li valorizzano come meritano. Ce ne sono, purtroppo: tra quelli che alzano le mani o anche solo la voce con gli insegnanti dei figli, ma anche e soprattutto tra quanti fanno le leggi e governano e in questi decenni hanno mortificato o lasciato mortificare il ruolo e il servizio reso da professori e maestri. Una scelta doppiamente autolesionista verso le nuove generazioni di italiani e verso le generazioni di nuovi italiani, coloro cioè che sono arrivati a vivere tra noi da altri Paesi e da altre culture e che in troppi casi, negli ultimi anni, sono stati lasciati ai margini e spinti nelle mani di malviventi (sino a diventarlo, in non pochi casi, più o meno gravemente, essi stessi) da norme sbagliate e propagande cattive invece di essere rispettati e messi alla prova come persone e perciò tenuti nel cono di luce della legge e della trasmissione della nostra cultura, dei nostri valori, delle consuetudini sociali della nostra gente. Legge, lingua e cultura, lavoro utile e reciproco rispetto: questa è la via dell’accoglienza e della sana inclusione. Il suo “lavoro dopo il lavoro di una vita” è una generosa dimostrazione di dedizione a una giusta causa. Ed è la dimostrazione che molto spesso, così tanto spesso da sembrare una regola non scritta, per un insegnante andare in pensione significa semplicemente continuare, in condizioni diverse, a istruire e a educare al buono, al bello e al vero. Avviene – come nel suo caso – in carcere, e avviene in case famiglia, in parrocchia, in oratorio, in scuole popolari, in centri di accoglienza per profughi e immigrati, in case di cura... L’ho imparato sin da bambino vivendo accanto a mia madre, maestra come lei, e a mio padre, un pedagogista che è stato professore di filosofia e preside, e condividendo le esperienze di amiche e amici che del “fare scuola” hanno fatto una vera e propria missione, vissuta – voglio usare le sue parole, gentile maestra – «con passione e per compassione». Cioè mettendoci se stessi, sino in fondo, e mettendosi nei panni degli altri con tutta l’anima e con apertura di testa e di cuore. Grazie per quel che fa e per l’affetto e l’apprezzamento che riserva al nostro lavoro qui ad “Avvenire” e nel nostro straordinario inserto, il giornale d’attualità per bambini “Popotus”. Ricambio con gioia il suo augurio francescano, così caro e familiare anche per me: pace e bene.

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