Soumaila aveva visto la morte da vicino quattro volte ma era riuscito a sfuggire. La morte che accompagna chi fugge dai drammi africani attraversando il mare verso la speranza di una vita. Anche Soumaila era su un barcone, non sappiamo se salvato da una nave militare o di un’Ong. Poi la Calabria, tendopoli-baraccopoli di San Ferdinando, unica "non scelta" per i lavoratori migranti di Rosarno e della Piana di Gioia Tauro. La morte Soumaila l’ha vista da vicino tre volte, proprio qui, in questo non luogo. Lui regolare, regolarissimo, ma da sempre sfruttato da caporali e imprenditori italiani. Due volte la sua baracca è stata distrutta dalle fiamme. Il 3 luglio 2017 e il 27 gennaio 2018, quando le fiamme hanno ucciso la giovane Becky Moses. Soumaila, che in quelle baracche viveva, era invece riuscito a salvarsi. La sua baracca era stata distrutta due volte e due volte lui l’aveva ricostruita. Con materiale rimediato, raccolto in luoghi abbandonati, come la fabbrica dove è stato ucciso.
Una fabbrica dove degli italianissimi delinquenti avevano sotterrato 135mila tonnellate di rifiuti pericolosi. Un inquinamento che nessuno ha pagato. Tutto prescritto. Nessuno ha bonificato, i veleni sono ancora lì, in una località che, ironia della sorte, si chiama Tranquilla. E lì sono andati Soumaila e i suoi amici che sicuramente non sapevano niente di quei veleni. Per loro era solo un luogo dove recuperare materiale per costruire le baracche.
Soprattutto lamiere che resistono agli incendi. Ma sempre baracche. Baracche, solo baracche nella vita italiana di Soumaila, lavoratore della terra in nero e senza casa. Questa la sua «pacchia», come il neoministro dell’Interno, Matteo Salvini ha definito l’accoglienza dei 'migranti economici' in Italia. E tra un incendio e l’altro la morte ha preso anche le sembianze della malasanità, ancor più mala per i migranti, malgrado la legge preveda che abbiano pienamente diritto all’assistenza sanitaria. Poco più di un anno fa, come ci racconta don Roberto Meduri, parroco a Rosarno, che lo conosceva bene, Soumaila si sente male, ha dolori fortissimi alla pancia, per giorni non tocca cibo. «Abbiamo chiamato più volte il 118, ma non gli volevano credere. Allora l’ho accompagnato io all’ospedale. Aveva un’ulcera perforata. L’hanno operato d’urgenza ed è rimasto in ospedale più di due settimane».
A vegliarlo di notte don Roberto e i volontari di varie associazioni. E anche quella volta Soumaila ce l’aveva fatta. Per un soffio. Ed è tornato alla sua baracca. Solo negli ultimi mesi aveva avuto diritto a un posto nella nuova tendopoli, ma spesso tornava nella vecchia baraccopoli, distante 200 metri, in parte rinata dopo l’ultimo incendio. Anche per il suo impegno da sindacalista. E lavorava, perché era un buon lavoratore, apprezzato per l’impegno. Anche se sempre sfruttato. Solo pochi giorni fa aveva avuto finalmente la notizia di un prossimo vero e sicuro contratto. Finalmente giustizia e diritti. Per sé, per la giovane moglie e la figlia di 5 anni lasciate nel Mali. Troppo tardi. Il suo gran cuore lo ha portato ad accompagnare i due amici. Tre persone diventate bersagli.
Un dramma che ha richiamato l’attenzione sulle condizioni di questi lavoratori. Regolari e sfruttati. Regolari, ma costretti a vivere in tendopoli, se va bene, o baraccopoli. Campi, sempre campi, più o meno organizzati, da tenere lontani, invisibili. Forse perché ci sarebbe da vergognarsi di questi luoghi. Anzi non luoghi, ma funzionali a un sistema economico che va avanti solo grazie a questi schiavi. Una 'pacchia' davvero! E non è solo responsabilità della ’ndrangheta. Lo è di chi dovrebbe offrire a questi lavoratori oltre che un vero contratto anche una vera casa. Impossibile? A pochi chilometri da dove Soumaila è stato ucciso, il bravo imprenditore Carmelo Basile lo fa con convinzione nella sua grande azienda di successo 'Fattoria della Piana'. E lo fanno anche i giovani della cooperativa Valle del Marro, che coltiva terreni confiscati alla ’ndrangheta.
Si può, anche qui. Ma la responsabilità è anche di tante distrazioni. Infatti noi riflettiamo quando ci sono i morti, ma perché i vivi non ci fanno riflettere? E anche i morti finiscono presto nel dimenticatoio: Yeroslav, 44 anni, ucraino, Man Addia, 31 anni, liberiano, Saidou, 36 anni, maliano, Sekine Traone, 27 anni, anche lui del Mali. E ancora altri due dei quali non siamo riusciti a sapere il nome. Morti in cinque anni nella tendopoli o nei campi, uccisi o consumati dal freddo e dagli stenti. E poi i dieci africani presi a sprangate all’inizio del 2016. Drammi che sui giornali durano lo spazio di qualche giorno. Ma che nulla o poco fanno cambiare in queste realtà. Verità e giustizia per Soumaila significa soprattutto occuparsi di queste persone senza aspettare di commentare il prossimo fatto tragico. E tanto più ora che invece di migliorare l’accoglienza, di garantire una vers simmetria tra diritti e doveri, sembra riaprirsi la scorciatoia degli slogan.