sabato 17 novembre 2012
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Ci sono quelli che – giustamente – si sono scan­dalizzati e si scandalizzano per il taglio al Fon­di per i non-autosufficienti che ha generato la vi­brante e rischiosa protesta dei malati di Sla. La pen­sano come noi, almeno su questo. Ma a volte si trat­ta degli stessi per cui una madre farebbe bene, in presenza di previste malformazioni del nascituro, ad abortire, a lasciar perdere. E allora qualcosa non tor­na. La logica, la ragione, stride. Come spesso capita di sentire stridere, in questi tempi cupi e confusi. Perché se ha senso indignarsi, se vale la pena di ma­nifestare per la mancanza di fondi, avrebbe senso indignarsi – e manifestarsi – anche per la mancan­za di chance di vita, no? O siamo, invece, in presen­za di un moto, comprensibile, del sentimento, che però privo di legame con la ragione diviene insop­portabile sentimentalismo?Sono tempi cupi, tempi confusi, dove una invisibile e pervasiva dittatura di non-pensiero sta ammor­bando l’aria. Un’indignazione giusta resta tale, an­che se contraddittoria, si capisce. È sacrosanta. È condivisibile. È anche onorevole. Ma se non accet­ta di paragonarsi fino in fondo con il problema – che è quello della dignità della vita, comunque – resta per così dire monca, debole, incapace di cultura vera. Una indignazione fragile. Volatile come tutte le in­dignazioni sentimentaloidi. Che oggi sono di gran moda. Un sacco di indignazione, a cui non corri­sponde molto pensiero a riguardo del medesimo og­getto. E che finisce per non combattere realmente contro l’indifferenza. Così come – in altro, vicino campo – vedo con sorpresa che la soppressione per via politica di parole come 'madre' come 'padre' non provoca nessun sussulto, nessuna indignazio­ne pensosa in chi si dichiara intellettuale e dovreb­be guardare con timore la soppressione di parole, la loro sostituzione nella vita comune ottenuta attra­verso il potere politico e burocratico. Quel che si delinea in Francia, su esempi altrui, con la sostituzione della parola madre, della parola pa­dre, con la asettica, asessuata 'genitore 1' e 'geni­tore 2' è una terribile violenza, simile a quella dei peg­giori Stati totalitari. Spesso, si ricordi, germinati nel Novecento da democratiche elezioni. La cancella­zione culturale, nominale, e dunque legale, della dif­ferenza, propugnata proprio da chi faceva della 'dif­ferenza' la propria iniziale bandiera, è uno dei fe­nomeni culturali di più vasta portata del nostro tem­po. Ma gli accademici, i maestri delle parole, i culto­ri del pensiero non si accorgono della perdita? della violenta cancellazione? del razzismo che come sap­piamo spesso inizia proprio dal razzismo verso le parole? Come se l’ideale dell’uomo che intende can­cellare ogni differenza tra il proprio desiderio e la natura procedesse con la cancellazione delle diffe­renze – anche quelle evidentissime – pur di affer­mare il proprio progettato potere. Negare ogni differenza diventa il programma feroce di chi non sopporta che la realtà sia 'differente' dal proprio progetto, dalla propria volontà. Una nuova reale dittatura, peggio forse di quelle del passato che non hanno potuto intaccare certe parole chiave, o si sono accontentate di aggredire le parole 'pubbli­che', mentre le parole primarie, quelle della vita in­tima, della vita nuda, continuavano a essere nutrite dalla coscienza libera. Ma a questa dittatura paiono proni tanti nostri accademici, i difensori della lingua, i puristi di quel tessuto interpretativo del reale che è la parola. Si può davvero buttare via, sotto i nostri oc­chi, la parola 'madre', la parola 'padre' senza che nessuno di costoro dica nulla? A questo punto è ar­rivato il potere ricattatorio della cultura dominante? dove sono gli intellettuali veramente coraggiosi? Quasi ironicamente il numeretto '1', '2' resta, pur se anonimo, a indicare ancora un resto di differen­za. Come avveniva e avviene per gli uomini messi in fila da torturatori o da burocrati: un numero, senza nome. Eppure in quel numerino diverso, in quel niente resiste ancora – ironicamente, poveramente – lo sfarzo meraviglioso della vita che non è come vo­gliamo noi, che è sempre differente. Che non si pie­ga a questa cupa, tetra programmata in-differenza.​
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